venerdì 2 gennaio 2015

Abbiate timore delle parole - Intervista ai Santo Barbaro

Confesso di essere stata messa alla prova dalla disarmante chiarezza d’intenti, sottinteso paradossalmente quasi evidente alla musica, e dalla generosità delle informazioni con cui mi è giunto il nuovo disco dei Santo Barbaro Geografia di un corpo. La reticenza di molti artisti mi ha abituato a formulare interrogativi macroscopici e mi ha allenato a indagare anche le questioni basilari sull’arte e il processo creativo; ora mi trovo un profluvio di riferimenti e stimoli che mi disorienta, invece che guidarmi.

Nelle note che accompagnano il disco sottolineate, in prima battuta, la centralità del corpo in senso mistico, inteso come mezzo di ritorno a Dio grazie alla mediazione della rivelazione in Cristo; la relazione con il divino passa, però, anche attraverso la mortificazione del corpo e la liberazione da esso, come realizzata dalla setta cristiano-ortodossa dei pazzi in Cristo, da voi citata. C’è forse una contraddizione tra l’affermazione dell’imprescindibilità del corpo, anche nel rapporto con lo spirituale, e l’allusione a una necessità di mortificazione? Oppure l’esempio dei pazzi in Cristo è solo una delle possibili modalità – via di negazione – di vivere il corpo?
Non ho mai teorizzato né auspicato la mortificazione del corpo, ma il suo esatto contrario. Mi interessano i pazzi in Cristo perché hanno dato centralità al corpo. In generale mi interessano di più le persone che si fanno delle domande di quelle che cercano delle risposte. La nostra cultura nasce da un corpo, dal suo sangue e dal suo essere terreno, e mi affascina chi, in ambito di fede, ha il coraggio di ribadire il nostro legame con la carne.
Le note di cui parlavo sono molto dettagliate ed esplicite nei rimandi; ritenete che la scelta di liriche essenziali renda necessario accludere una sorta di “introduzione” al lavoro, che ne spieghi l’orizzonte di riferimento?
No, credo che i testi, essenziali o meno, debbano essere in grado di stare in piedi da soli. Qualsiasi spiegazione accessoria è, oltre che poco interessante, un chiaro segno di resa. Le spiegazioni di cui parli non accompagnano il disco fisico, ma sono solo degli spunti di riflessione che abbiamo aggiunto per delineare il nostro universo di riferimento. I testi sono volutamente una successione ininterrotta di frasi sconnesse di cui mi sono liberato.
La geografia spazio-temporale sembra essere stata determinante nel processo creativo; avete scelto di localizzare e realizzare prove e registrazioni in modo molto singolare, in una dimensione di contiguità non solo fisica ma anche artistica: nove musicisti insieme con poche direttive e l’unico vincolo dello spazio occupato dagli altri corpi. Questa libertà condivisa sembra aver generato uno spazio fisico e creativo peculiare, in cui il centro di gravità si è spostato con il mutare delle coordinate musicali. È un’intuizione corretta?
Assolutamente sì. Volevamo dei limiti e li volevamo umani. Oggi si possono fare dischi bellissimi stando seduti alla propria scrivania. Il problema non è la bellezza che si può raggiungere ma l´umanità che deve rimanere come filo conduttore di un disco pensato come tale, e non come semplice successione di canzoni. Il punto è che il disco che abbiamo fatto sarebbe stato completamente diverso se anche solo uno dei componenti avesse deciso di rimanere a casa, e questa per me é una grande vittoria personale perché ribadisce la centralità della persona.
L’album precedente Navi e Geografia di un corpo sembrano essere agli antipodi: un progetto a due e una lavorazione di un anno, cesellata nei dettagli, contro quattro giorni di presa diretta con nove musicisti, senza rifinitura delle “imperfezioni” dell’approccio live. Al di là delle differenze più evidenti, com’è stato impegnarsi in due opere così diverse?
Sono due lavori complementari e, in particolare, Geografia di un corpo è ciò che è proprio alla luce di Navi, che rappresenta forse il nostro lavoro meglio riuscito, ma ha l´enorme limite di essere nato e morto nella nostra mente. I dischi mentali creano aspettative e le aspettative devono poi rapportarsi con il mondo reale e qui nascono infiniti problemi. Fare un disco in tre giorni ti libera da ogni pensiero sulla fine che farà e ti lascia solamente la voglia di andarlo a sputare su qualche palco.

Oltre al riferimento ai pazzi in Cristo, ci sono altri elementi tratti dalla cultura russa: dal fotografo che ha curato l’artwork, Yaroslav Vasilyev, al richiamo al regista Lungin; cosa avete trovato di particolarmente interessante nell’immaginario russo e quali aspetti hanno contribuito a definire le tematiche del disco?
Credo sia abbastanza casuale. Di sicuro la cultura russa ha un rapporto molto stretto con Dio e forse proprio per questo ha sempre cercato di limitarlo o nasconderlo. La nostra cultura è cristiana, che ci piaccia o no, e se parli di corpo la prima immagine che ti viene in mente è quella di un uomo su una croce. Sono partito da quell’immagine per onestà intellettuale e ho finito per ritrovare il mio corpo.
In che modo le suggestioni e gli spunti di altre forme d’arte entrano nel processo creativo, in generale per la band e in particolare per questo disco?
Io, come tutti credo, mi nutro di ciò che vedo, di ciò che leggo. Sono un amante compulsivo di cinema e forse anche per questo scrivo quasi solo per immagini. I testi di questo album sono la combinazione di centinaia di frasi che mi sono appuntato durante l’ultimo anno e riflettono totalmente ciò che ho assorbito dalla realtà. Alcuni riferimenti sono espliciti, altri rimangono inaccessibili anche a me stesso. Per una volta nella vita ho deciso di camminare senza cercare un motivo per farlo.
Avete iniziato come band di folk sperimentale, ora fate uscire un disco che rimanda alle sonorità post punk più efficaci e affilate, Joy Division su tutti; c’è un’evoluzione che collega il presente agli esordi, o è più opportuno parlare di un cambio di rotta?
Abbiamo sempre ascoltato new wave, trip hop, punk, elettronica, ecc. Molti di noi provengono fieramente dal punk e dalla new wave, ma non solo. Secondo me l’unico genere che rimane ai margini della nostra storia è proprio il folk da cui siamo partiti. Questo disco è un ritorno alle origini del nostro suono e si avvicina molto di più all’approccio che abbiamo sempre avuto dal vivo. Cantare mentre si suona o cantare da soli in una camera insonorizzata, ad esempio, non è un dettaglio di poco conto; è una decisione centrale che bisogna prendere prima di iniziare e che sposta totalmente l´intenzione con cui si fanno le cose.
Nel corso degli anni i Santo Barbaro sono stati, a più riprese, giustiziati e risuscitati; questa sopravvivenza difficile è dovuta a dubbi sul progetto da parte del suo fondatore, a ripensamenti artistici o a circostanze esterne?
Non ho mai avuto dubbi perché non mi sono mai posto particolari domande. Suoniamo quando ne sentiamo la necessità, rimaniamo fermi quando non abbiamo niente da dire. La nostra storia travagliata è quella di centinaia di band del nostro paese, ma è naturale se si decide di proseguire per la propria strada. Personalmente credo che, come in ogni aspetto della vita, ci troviamo esattamente nel punto in cui meritiamo di esistere.




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