Confesso di essere stata messa
alla prova dalla disarmante chiarezza d’intenti, sottinteso paradossalmente
quasi evidente alla musica, e dalla generosità delle informazioni con cui mi è
giunto il nuovo disco dei Santo Barbaro Geografia di un corpo. La reticenza di molti artisti mi ha abituato a
formulare interrogativi macroscopici e mi ha allenato a indagare anche le
questioni basilari sull’arte e il processo creativo; ora mi trovo un profluvio
di riferimenti e stimoli che mi disorienta, invece che guidarmi.
Nelle note che accompagnano il
disco sottolineate, in prima battuta, la centralità del corpo in senso mistico,
inteso come mezzo di ritorno a Dio grazie alla mediazione della rivelazione in
Cristo; la relazione con il divino passa, però, anche attraverso la
mortificazione del corpo e la liberazione da esso, come realizzata dalla setta
cristiano-ortodossa dei pazzi in Cristo, da voi citata. C’è forse una
contraddizione tra l’affermazione dell’imprescindibilità del corpo, anche nel
rapporto con lo spirituale, e l’allusione a una necessità di mortificazione?
Oppure l’esempio dei pazzi in Cristo è solo una delle possibili modalità – via
di negazione – di vivere il corpo?
Non ho mai teorizzato né
auspicato la mortificazione del corpo, ma il suo esatto contrario. Mi
interessano i pazzi in Cristo perché hanno dato centralità al corpo. In
generale mi interessano di più le persone che si fanno delle domande di quelle
che cercano delle risposte. La nostra cultura nasce da un corpo, dal suo sangue
e dal suo essere terreno, e mi affascina chi, in ambito di fede, ha il coraggio
di ribadire il nostro legame con la carne.
Le note di cui parlavo sono
molto dettagliate ed esplicite nei rimandi; ritenete che la scelta di liriche
essenziali renda necessario accludere una sorta di “introduzione” al lavoro,
che ne spieghi l’orizzonte di riferimento?
No, credo che i testi, essenziali
o meno, debbano essere in grado di stare in piedi da soli. Qualsiasi
spiegazione accessoria è, oltre che poco interessante, un chiaro segno di resa.
Le spiegazioni di cui parli non accompagnano il disco fisico, ma sono solo
degli spunti di riflessione che abbiamo aggiunto per delineare il nostro
universo di riferimento. I testi sono volutamente una successione ininterrotta di
frasi sconnesse di cui mi sono liberato.
La geografia spazio-temporale
sembra essere stata determinante nel processo creativo; avete scelto di
localizzare e realizzare prove e registrazioni in modo molto singolare, in una
dimensione di contiguità non solo fisica ma anche artistica: nove musicisti
insieme con poche direttive e l’unico vincolo dello spazio occupato dagli altri
corpi. Questa libertà condivisa sembra aver generato uno spazio fisico e
creativo peculiare, in cui il centro di gravità si è spostato con il mutare
delle coordinate musicali. È un’intuizione corretta?
Assolutamente sì. Volevamo dei
limiti e li volevamo umani. Oggi si possono fare dischi bellissimi stando
seduti alla propria scrivania. Il problema non è la bellezza che si può
raggiungere ma l´umanità che deve rimanere come filo conduttore di un disco
pensato come tale, e non come semplice successione di canzoni. Il punto è che
il disco che abbiamo fatto sarebbe stato completamente diverso se anche solo
uno dei componenti avesse deciso di rimanere a casa, e questa per me é una
grande vittoria personale perché ribadisce la centralità della persona.
L’album precedente Navi e Geografia di un corpo sembrano essere agli antipodi: un progetto a due
e una lavorazione di un anno, cesellata nei dettagli, contro quattro giorni di
presa diretta con nove musicisti, senza rifinitura delle “imperfezioni”
dell’approccio live. Al di là delle differenze più evidenti, com’è stato
impegnarsi in due opere così diverse?
Sono due lavori complementari e,
in particolare, Geografia di un corpo è
ciò che è proprio alla luce di Navi,
che rappresenta forse il nostro lavoro meglio riuscito, ma ha l´enorme limite
di essere nato e morto nella nostra mente. I dischi mentali creano aspettative
e le aspettative devono poi rapportarsi con il mondo reale e qui nascono
infiniti problemi. Fare un disco in tre giorni ti libera da ogni pensiero sulla
fine che farà e ti lascia solamente la voglia di andarlo a sputare su qualche
palco.
Oltre al riferimento ai pazzi
in Cristo, ci sono altri elementi tratti dalla cultura russa: dal fotografo che
ha curato l’artwork, Yaroslav Vasilyev, al richiamo al regista Lungin; cosa
avete trovato di particolarmente interessante nell’immaginario russo e quali
aspetti hanno contribuito a definire le tematiche del disco?
Credo sia abbastanza casuale. Di
sicuro la cultura russa ha un rapporto molto stretto con Dio e forse proprio
per questo ha sempre cercato di limitarlo o nasconderlo. La nostra cultura è
cristiana, che ci piaccia o no, e se parli di corpo la prima immagine che ti
viene in mente è quella di un uomo su una croce. Sono partito da quell’immagine
per onestà intellettuale e ho finito per ritrovare il mio corpo.
In che modo le suggestioni e
gli spunti di altre forme d’arte entrano nel processo creativo, in generale per
la band e in particolare per questo disco?
Io, come tutti credo, mi nutro di
ciò che vedo, di ciò che leggo. Sono un amante compulsivo di cinema e forse
anche per questo scrivo quasi solo per immagini. I testi di questo album sono
la combinazione di centinaia di frasi che mi sono appuntato durante l’ultimo
anno e riflettono totalmente ciò che ho assorbito dalla realtà. Alcuni
riferimenti sono espliciti, altri rimangono inaccessibili anche a me stesso.
Per una volta nella vita ho deciso di camminare senza cercare un motivo per
farlo.
Avete iniziato come band di
folk sperimentale, ora fate uscire un disco che rimanda alle sonorità post punk
più efficaci e affilate, Joy Division su tutti; c’è un’evoluzione che collega
il presente agli esordi, o è più opportuno parlare di un cambio di rotta?
Abbiamo sempre ascoltato new
wave, trip hop, punk, elettronica, ecc. Molti di noi provengono fieramente dal
punk e dalla new wave, ma non solo. Secondo me l’unico genere che rimane ai
margini della nostra storia è proprio il folk da cui siamo partiti. Questo
disco è un ritorno alle origini del nostro suono e si avvicina molto di più
all’approccio che abbiamo sempre avuto dal vivo. Cantare mentre si suona o
cantare da soli in una camera insonorizzata, ad esempio, non è un dettaglio di
poco conto; è una decisione centrale che bisogna prendere prima di iniziare e
che sposta totalmente l´intenzione con cui si fanno le cose.
Nel corso degli anni i Santo
Barbaro sono stati, a più riprese, giustiziati e risuscitati; questa
sopravvivenza difficile è dovuta a dubbi sul progetto da parte del suo
fondatore, a ripensamenti artistici o a circostanze esterne?
Non ho mai avuto dubbi perché non
mi sono mai posto particolari domande. Suoniamo quando ne sentiamo la necessità,
rimaniamo fermi quando non abbiamo niente da dire. La nostra storia travagliata
è quella di centinaia di band del nostro paese, ma è naturale se si decide di
proseguire per la propria strada. Personalmente credo che, come in ogni aspetto
della vita, ci troviamo esattamente nel punto in cui meritiamo di esistere.
0 commenti:
Posta un commento