sabato 10 dicembre 2011

Intervista a Giuseppe Peveri (DENTE)

“L'immagine della cioccolata calda mentre si ascolta il mio disco mi piace molto: mi ricorda uno di quei pomeriggi d'inverno, quando sei a casa e fuori è già buio e tu devi studiare. Una di quelle situazioni che nel ricordo ti fanno un po' tenerezza, un po' malinconia...” Con un commento alla nostra recensione inizia la lunga chiacchierata con Giuseppe Peveri, per brevità Dente, che dopo l'uscita di “Io tra di noi”, è impegnato in un vasto tour promozionale. Alle atmosfere di provincia a cui i suoi corregionali ci hanno abituato, proponendo un'immagine dell'Emilia (paranoica) come una tabula rasa elettrificata, tra bar eluoghi opprimenti, Peveri oppone una dimensione più intima. “Sarà pure che quando vivi in un posto come questo, la sera hai più vogliadi scrivere piuttosto che uscire di casa” ci racconta. Il resto della conversazione è qui fedelmente riportato.


Il vocabolario dei sinonimi e contrari ci dimostra che l'opposto di "semplice" è "artefatto", cioè "fatto adarte". Tu hai fatto della semplicità la colonna portante della tua produzione musicale, come in letteratura i poeti intimisti. Come spieghi questo rapporto tra arte e semplicità? È possibile raccontare la quotidianità senza falsarla?

Credo di sì, cerco di raccontare le cose come le sento piuttosto che descriverle in modo meccanico. Non penso neanche più di tanto a quello che voglio raccontare. Tutto quello che ho scritto è uscito in modo molto naturale. Sicuramente c'è semplicità, perché mi piace essere chiaro e perché non amo molto igiri di parole né i paroloni.

Nella musica italiana se ne fa largo uso.

Sì, c'è sempre la tendenza quando scrivi canzoni in italiano a voler fare poesia. Credo di aver capito, grazie anche ad altri cantautori - mi viene in mente Bugo - che si potevano scrivere delle belle canzoni con le parole di tutti igiorni.

È possibile secondo te che questi eccessi nella forma dei testi siano il risultato di una sorta di senso di inferiorità dei cantautori italiani rispetto alla scena estera? Ognuno usa gli strumenti che ha nel tentativo di eccellere, in Italia abbiamo una tradizione letteraria molto forte...

È possibile, ma non so cosa spinga l'italiano a fare una considerazione di questo tipo. Se pensiamo alla musica straniera che ha fatto la storia – penso ai Beatles o ai Rolling Stones – troviamo testi molto banali. Invece noi abbiamo sempre avuto questa tendenza a strafare, desunta anche da una tradizione che io amo, ma è una cosa che non ha più molto senso. È una forma di linguaggio che in un incontro a cui ho partecipato qualche tempo fa è stata definita “canzonese”.

Restiamo in tema letterario: nei tuoi testi, tra rovesciamenti ironici e citazioni distorte, sembrano eredi di una certa tradizione che va da Rodari ai saltimbanchi di Palazzeschi. Quali letture hanno influenzato il tuo modo di scrivere?

Rodari fu una mente illuminata, ha fatto scoppiare i petardi della semplicità facendo fuochi d'artificio con i fiammiferi. Il ricordo più vivo che ho della prima cosa che mi ha stupito è la lettura delle poesie di Ungaretti, quando ero bambino, a scuola... Lì ho capito che c'erano delle cose molto interessanti che si potevano fare con il linguaggio. Il lavoro di sottrazione è quello che più mi interessa da sempre: riuscire ad esprimere con poche parole concetti molto ampi. E quello fu il primo stimolo per cominciare a scrivere.

Com'è stato scrivere un racconto per la raccolta “Cosa volete sentire”? Tra quelli dei tuoi colleghi, ce n'è qualcuno che ti è piaciuto in particolare?

Mi sono stati dietro con la forca dandomi anche delle scadenze fasulle per farmi sbrigare! (ride) Sono poco avvezzo a scrivere in prosa sebbene io abbia sempre sognato di scrivere romanzi piuttosto che racconti. Sono pigro, ma alla fine l'ho fatto e ne sono felice. Gli altri racconti non li ho letti ancora tutti. Quello di Dario è molto divertente, quello di Appino è scritto molto bene e anche quello di Vasco mi è piaciuto. Ho letto prima i miei amici, insomma.

Per quanto riguarda la prosa, il tuo è un tipo di scrittura che contiene molti caratteri lirici, ci sono dei sintagmi e delle formule che tu usi in maniera ripetuta che oltrea essere divertenti creano una certa ritmo e una musicalità.

Sì, presto molta attenzione al suono delle parole, anche quando scrivevo le recensioni per Il Fatto Quotidiano lo facevo, dal momento in cui ho l'abitudine di scrivere canzoni. Anche quando mi cimento con cose di altro genere, le frasi devono quantomeno nella mia testa scorrere in un modo molto melodico.Tra l'altro il racconto parla della nascita di una canzone quindi era indispensabile che fosse così.


L'ampio uso dell'ironia ti rende molto affine a Dario Brunori con cui tra l'altro hai collaborato siain studio che dal vivo. Com'è nata questa sinergia?

Ci siamo conosciuti qualche tempo fa, eravamo fan l'uno dell'altro e ci siamo risultati molto simpatici. Quando è uscito il suo primo disco l'ho anche recensito su Il Fatto Quotidiano. Mi ha proposto di questa collaborazione per un brano del suo disco nuovo, che mi fece ascoltare a casa sua. La canzone “Il suo sorriso” mi piacque molto, quindi ho accettato. Abbiamo fatto quel concerto al Circolo degli Artisti in cui ci scambiavamo le canzoni, è stato molto divertente. È nato tutto dall'amicizia.

È bello che tu dica una cosa del genere riguardo a una sorta di rete d'affetto artistica, le collaborazioni sono spesso costruite a tavolino, sebbene anche in quel caso possano nascere delle cose interessanti.

Per quanto riguarda la mia esperienza ein generale nell'ambito della musica indipendente, le collaborazioni nascono dall'amicizia e credo siano le migliori, poi se parliamo di Piero Pelù con Anggun o dei Marlene Kuntz con Skin è un'altra cosa...

Come te la cavi con l'autoironia? Sai che sulla pagina Facebook "Lucio della centrale elettrica" dedicata a Brondi c'è un personaggio a te ispirato di nome Tende?

(ride) Non lo sapevo. La pagina l'avevo vista quando è nata, fecero anche un video molto divertente, non socome l'abbia presa Vasco! Io vado abbastanza bene, sono abbastanza tranquillo, anche perché me ne hanno fatte meno, a lui un po' dipiù...

Cosa avresti fatto nella vita se nonfossi diventato musicista?

Avrei avuto una vita abbastanza triste e votata al suicidio, continuando a fare lavori a caso. Forse sarei ancora in un magazzino a Fidenza.

E se ti avessero detto che ilmusicista proprio non potevi farlo, ma potevi scegliere un altro sogno da realizzare?

Mi sarebbe piaciuto fare l'insegnante. Credo sia un lavoro molto interessante quando riesci a conquistare la fiducia del tuo pubblico, ovvero gli studenti. Io ho avuto degli insegnanti terribili nella mia vita ma anche alcuni che ammiravo molto e che invidiavo un po', divulgare il sapere è una cosa moltobella.

Lo capisco: tra le altre cose,lavoro in un asilo e ti posso dire che i miei piccoli alunni amano moltissimo le tue canzoni.

(ride) Non si addormentano?

No, il tuo ultimo album ha avuto presso di loro un successo strepitoso, surclassando “Ci vuole un fiore” che era considerato il disco definitivo...

Mi piacerebbe molto fare un disco per bambini in quel modo, Come lo fece Endrigo con “Ci vuole un fiore”. I testi erano tra l'altro di Rodari. Non so se hai presente “They might be giants”, quei dischi che sono usciti perla Disney. Sono meravigliosi, divisi per temi: ci sono l'alfabeto, inumeri e la scienza e insegnano l'alfabeto attraverso le canzoni. Realizzare qualcosa del genere sarebbe veramente un sogno.

Se tu dovessi pensare di iniziare un progetto di questo genere, pretendo l'anteprima sulla notizia, così avverto i miei scolari!

Verrò a fare gli showcase negli asili. (ride)

Nella tua arte compositiva qualisono i pro e i contro di non aver studiato musica?

Tra i contro: sentirsi in difetto quando si incontrano musicisti veri: un po' li invidio perché conoscono la musica quanto la lingua italiana. Il pro sta invece nella maggiore libertà espressiva.

Le tue canzoni hanno un'atmosfera molto intima che mi fa pensare che si adattino a una dimensione live più ristretta, piuttosto che a un grande palco. Qualcosa come i secret concert. Ne hai fatti? Che differenze rilevi tra un concerto dentro casa piuttosto che in un ambiente più ampio?

Ho fatto un po' di secret concert. Il mio passato è fatto di concerti chitarra e voce in locali piccolissimi con scarso pubblico. Sono affezionato a quel periodo, che è stato pieno di sacrifici anche emotivi: suonavo in qualsiasi posto e a qualsiasi cifra pur di pagarmi l'affitto: insomma, non sono proprio canzoni da aperitivo milanese. Di alcuni concerti ho un bellissimo ricordo, di altri terribile. Ho cominciato relativamente da poco a suonare in posti più grandi e sono due cose completamente diverse. Avendo dopo cinque album tante canzoni tra cui scegliere, la scaletta può variare in base al tipo di location, che sia un club o un teatro. Non so neanche dirti quale mi piace di più.

In che modo le tue esperienze precedenti confluiscono in “Io tra di noi”?

In questo disco c'è un po' tutto di quello che ho fatto: canzoni che potrebbero stare in “Anice in bocca” ed altre che potrebbero stare nel prossimo disco. Tutto conuna produzione e una direzione che sono il forte elemento di novità, insieme al suono nuovo uscito fuori durante le registrazioni. Credo sia una buona raccolta delle mie esperienze.



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