venerdì 5 febbraio 2016

Intervista ad Agostino Tilotta (Uzeda/Bellini) – Terni, Anfiteatro Romano, 28/05/2015



La precarietà è una buona base per fare le rivoluzioni. Ovvero: meglio una bicicletta, un ape o l’autobus?

Nei giorni in cui gli Uzeda suonavano prima a Roma, in apertura agli Shellac, e poi all’Anfiteatro Romano di Terni, un dibattito scatenato da Federico Guglielmi infiammava la rete e mi attirava insulti addosso, forse perché ero una delle poche donne coinvolte nelle discussioni. Le mie domande improvvisate, rivolte ad Agostino Tilotta appena dopo il concerto ternano, inevitabilmente ricadevano su quell’argomento: loro, paladini siciliani non tanto delle schiere di parolai italici quanto della devozione allo strumento, sono stati tra i pochi a espugnare i tanto agognati timpani stranieri; perché quindi a tante band italiane l’estero sembra precluso? È forse colpa della lingua?

La questione non è solo una, è un tema; quindi forse è meglio concentrarsi su qualche domanda, ché la materia è complessa… o, per meglio dire, la materia non è complessa: la si fa diventare complessa perché così certo giornalismo – ogni tanto, quasi sempre – tira fuori questo campanilismo che ultimamente, diciamo nell’ultimo ventennio, pare che vada sempre più di moda. E poi il campanilismo, di qualunque nazionalità esso sia, diventa anche localismo; e dal localismo si arriva anche poi a definizioni che, secondo me, sono anche pericolose, perché diventano poi nazionalismi. Questo era per dire che l’argomento è molto largo. Poi dici: stiamo parlando di musica? La musica è un argomento largo.
Noi siamo italiani, abbiamo il passaporto italiano; poi noi siamo siciliani, lo diciamo sempre. Per questo io preferisco chiederti una domanda. Fammi una domanda. Perché appunto l’argomento è veramente largo e, se lo si vuole affrontare, bisogna prenderlo per singole domande nello specifico.

Pensi quindi che il problema o il limite sia la lingua, per le band italiane? Pensi che, sforzandosi di cantare in inglese, potrebbero avere più chance?

Secondo me non esiste un limite. Cioè, se io ho la bicicletta e decido di avere la bicicletta per pedalare, vuol dire che è perché voglio pedalare la bicicletta. Se io penso che ho una bicicletta, ma la voglio far diventare un’automobile, oppure un ape a tre ruote, o un autobus, è chiaro che tutto questo non so dove va a finire. Sinceramente a me non interessa. Oppure, la bicicletta non mi soddisfa, mi compro un ape a tre ruote. Se questo non mi soddisfa, mi compro un’automobile, e così via. Nella comodità di questa discussione – perché non è che è una cosa nuova, è una cosa che esiste da sempre – la materia del canto in inglese… per me sono tutte stronzate, e lo scrivo a caratteri cubitali. Ognuno canti ciò che vuole, ognuno suoni ciò che vuole, purché abbia l’umiltà e la semplicità di cantare se stesso e raccontare le sue storie. Ma questo implica il percorso, non è come andare al supermercato. E comunque, anche fare questo gesto di andare al supermercato implica che uno deve avere, se non scritto sulla carta, deve avere una lista di quello che gli serve. Quindi tornerei al punto focale del problema. Io il problema, semplicemente, non lo vedo; è solo, secondo me, una modalità di creare una discussione. Noi siamo italiani e siamo degli abili parlatori. Ma questo non è una cosa negativa, lo dico per il fatto che la lingua italiana è una lingua bellissima, è una lingua che così, per come si scrive, con tutte le vocali, ha un’ampiezza di dizionario che altre lingue non hanno; forse quella francese, ma è una lingua neolatina, o anche quella spagnola. Per esempio, la lingua inglese non ha quest’ampiezza di vocaboli. Noi abbiamo una parola per ogni emozione, loro non l’hanno; però questo permette a loro questa forma di stringere e allargare, secondo anche l’esigenza “motoria” del momento.
Torno al punto. Per me il problema non esiste. È chiaro che chi canta in italiano e fa musica melodica e va in America, canterà per gli immigrati che vivono là e sono ben felici di andare ai concerti e di spendere anche trecento dollari per vedere un cantante o una cantante di musica leggera. Ma, siccome in tutto questo contesto della discussione “musica leggera” sembra essere offensivo – per me non lo è – allora diventa “musica pop”. Ognuno sceglie un percorso: il pilota di Formula 1 sceglie di andare in Formula 1, con tutti i rischi, anche di lasciarci le penne. La stessa cosa è nella musica: siccome gli uffici stampa… per la maggior parte delle volte gli uffici stampa sono pagati e sono molto potenti e quindi hanno, come si suol dire, il diritto, il potere della parola… il diritto e il potere di riempire i giornali… perché tanto a suon di soldi si fa tutto. Gli ambiti della musica dei quali io credo – lo dico e lo sottoscrivo mille volte – CREDO noi stiamo parlando, non hanno niente a che vedere con tutto ciò. Però anche lì, per strategie, si vuole infilare a tutti costi un ambito diverso dentro un ambito che non c’entra nulla. Quindi Federico Guglielmi – a parte che è un amico, è una persona che sa, capisce, è un appassionato di musica – è chiaro che lui muove una parentesi provocatoria, ma lui lo fa perché conosce gli ambiti in cui si muove la cosiddetta “musica italiana”. Poi, ovviamente, siamo sempre là: noi che siamo siculi, diciamo: “dire tutto, per non dire… stavo dicendo “un cazzo”, ma…scusami… “dire tutto per non dire niente”, o “cambiare tutto per non cambiare niente”. Cos’è la musica italiana, io ancora non l’ho capito. Ho la mia idea ma, voglio dire, se nell’ambito della musica alternativa, giovanile, underground, come lo vogliamo chiamare, per musica italiana si intende “musica che si canta in lingua italiana”, questo è decisamente un punto per creare una grande confusione. Soprattutto, il pericolo maggiore – io lo chiamo pericolo – è di creare una confusione soprattutto in quelli che sono i giovani e che hanno, per fortuna, un’indole diversa: sono molto meglio di noi, sono molto più avanti di noi, hanno molta più sincerità. E hanno molti più problemi, perché hanno tutti quei problemi che noi abbiamo costruito e che abbiamo lasciato a loro. Quindi, tornando a noi, io dico: la domanda, qual è, Angela?

Sull’argomento, se ne può fare anche un’altra...se è vero che i gruppi italiani all’estero non sono conosciuti per niente. Voi, che girate parecchio, forse avete il polso della situazione.

Allora, mettiamola così. La musica, in quanto arte, non è diversa dalle altre arti. Una volta un pittore che veniva da Canicattì, come da Aosta o da Pescara, se ne andava a Parigi come se ne andava a New York, e magari non sapeva parlare una parola di una lingua straniera. Parlava con la pittura. E tutti questi artisti, che venivano da tutte le parti del mondo, si riconoscevano attraverso la pittura. C’è un senso di appartenenza verso un’arte. Questa cosa della musica italiana è una grande stronzata, perché si vuole dire qualcosa che però non si dice. Il mondo è lì: non è che per andare a New York ci vuole la raccomandazione. Io non vedo nessuna prevaricazione per nessuno, sono solo dei falsi alibi; noi cantavamo in inglese ancora prima di varcare lo stretto, era una scelta. Era una scelta poetica, una scelta di certa letteratura, una scelta di uno strumento che è la voce che decide di esprimersi in un certo modo anche per una questione sonora. Non ha niente a che vedere né con Sanremo, né col Disco per l’Estate, né con la classifica, né con le top ten… è tutta un’altra storia. So che questo non copre il gap. Se uno da qua se ne va in America è anche in grado di riempire il Madison Square Garden; bisogna vedere con che tipo di gente lo riempie: ci sono tutti quelli che fanno le pizze a Little Italy, poi ci sono tutti i trasportatori di Boston che sono figli di emigrati, è chiaro che vanno a vedere Laura Pausini e pagano anche cinquecento dollari. Se uno guarda in maniera neutrale, non c’è limite per nessuno; ma, se si vuole dire qualcosa sull’ambito della musica che ci riguarda, io posso dire solo: il mondo è lì, ognuno si accomodi e faccia quello che vuole fare e che riesce a fare. Di sicuro, proprio perché esiste questa specularità e questa capacità di accogliere – perché noi adesso abbiamo le barriere – in America, se il concerto piace, si comprano i dischi, si comprano la maglietta, ti invitano a casa; ma, se non li prende, continuano a giocare a biliardo. Non ci sono strategie di mercato o cose subdole… queste sono le cose che facciamo noi, o che le multinazionali hanno inventato. Il paradosso è che anche i musicisti che stanno nelle multinazionali, che non sono italiane – la Universal, la Sony –, però hanno dei paletti: la Universal italiana deve fare della musica che non vada in conflitto con gli interessi di altre nazioni, dove hanno altre direzioni commerciali. Potremmo continuare fino a domani, ma non penso che…

Anch’io penso che sia meglio uscirne, benché ascolterei per ore Tilotta dissertare, con ipnotica inflessione catanese, sui falsi alibi della musica italiana. E penso che le curiosità di Riccardo, fidato manovratore della macchina da presa, possano tirarci fuori da questo gorgo di riflessioni.
Vi è mancato stasera il rapporto stretto con il pubblico? Vi ho sempre visto come una band che suona in modo molto carnale e che ha un rapporto con il pubblico non palco – platea ma alla pari, con gente addosso. Stasera mi è sembrato un po’ strano, con questo tipo di separazione.

A te sembrava strano, perché tu avresti voluto noi più vicini. Per noi il discorso è molto lineare: il nostro punto di riferimento, anche per il ruolo che abbiamo: per esempio, stasera noi siamo quelli che andiamo sul palco, un’altra sera noi siamo la platea assieme agli altri. Quindi, se fossi stato al tuo posto, a me che piace fruire la musica molto più intimamente, avrei pensato la stessa cosa; però è diverso l’approccio da parte di chi va a un concerto per fruire la musica e da chi invece la musica la fa. Per noi è diverso, il nostro riferimento è il palco ovunque esso si trovi. Quello è la nostra casa. All’interno del palco, per fortuna, noi ci sentiamo imperatori del nostro centimetro quadrato. E ci va bene così. Non è che abbiamo delle preferenze. Possiamo suonare in un posto piccolo quanto la stanza che c’è qua: l’abbiamo fatto ad esempio due anni fa, abbiamo suonato in questo locale bellissimo che si chiama “Perditempo”, in piazza Dante a Napoli: era un posto piccolo, proprio una sala da cinquanta. La cosa bellissima era che, siccome c’erano queste porte a vetri ed era d’estate, queste porte a vetri si aprivano sulla piazza, che era chiusa al traffico, e lì ci stavano cinquecento persone, e noi eravamo circondati da queste persone. Ma non è una predilezione per noi, per noi il punto di riferimento è il palco, ovunque è messo. Per esempio a Catania avevamo il mare davanti e a sinistra avevamo l’Etna. Però capisco che tu ci avresti voluto più vicini. Il palco è stato fatto là, quello era per noi. È chiaro che avere la gente intorno a noi piace, ci sono tanti gruppi che mettono proprio le barriere, le mettono sui rider. A noi proprio non ce ne frega niente. Quando abbiamo fatto il concerto a Roma, tre giorni fa, quando poi abbiamo finito di suonare e abbiamo lasciato il palco a Shellac, io sono sceso dal palco e stavo per infilarmi in mezzo alla gente; il gorilla mi ha fermato: secondo lui dovevo uscire dall’uscita di sicurezza e fare il giro… ma perché? “Qua c’è la gente”. Ma a noi la gente piace. Apri questa barriera e mi fai passare? Sono passato in mezzo alla gente.

L’ultima domanda. A proposito di Catania. Com’è stato possibile che a Catania sia nato un gruppo come voi? Qual era l’humus culturale che ha favorito la nascita?

Io penso che la precarietà sia una buona base per fare delle rivoluzioni. È successo così a Detroit, a Washington DC, ai tempi delle Posse quando sono nati i centri sociali. A un certo punto la necessità si inventa qualcosa, quindi uno ha bisogno di buttarlo fuori, questo malessere: o diventa malato, oppure lo fa esplodere in qualche cosa. E così è stato. Ma è stato, ora non c’è. Aspettiamo che esploda da qualche altra parte. Devo dire, in questo momento non esplode proprio niente. Tutti esplodono dentro Facebook. Perfettamente resi esplosi da chi, a un certo punto, dopo aver succhiato il sistema per scopi militari, ha detto “abbiamo capito come funziona, diamolo alla gente, così si rincoglionisce e diminuisce fino alla nullità la capacità di reazione delle cose”. Non ci va bene niente, non siamo liberi, non ci piace quello che mangiamo, ma ce lo diciamo a vicenda. Poi diciamo: “secondo te, perché la musica italiana all’estero non esplode?”. Perché la musica italiana non ha la capacità di essere così umile e così propositiva per offrirsi: uno si offre al mondo e dice “io contribuisco così”. Allo stato attuale siamo fatti così: noi invitiamo le persone a mangiare e devono mangiare quello che noi pensiamo che sia giusto che loro mangino. Questo è un po’ quello che succede nella musica. Quindi meglio che se ne stiano a casa. Ovviamente non abbiamo risolto il problema. Rimarrà, finché qualcuno dirà: “ma la musica italiana, che speranze ha di avere successo?”. E lì si apre un’altra finestra: “cos’è il successo?”.

Regia e montaggio: Riccardo Tappo
Riprese: Francesco Brunotti e Riccardo Tappo

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