lunedì 9 marzo 2015

It takes to be able to deal with failure. Intervista a David Thomas (Pere Ubu) @ Urban Club, Perugia 18/02/2015

Ci sono circostanze che richiedono un approccio particolare, pragmatico o perfino battagliero. E ci sono artisti che meritano che mi assuma qualche rischio, che sfoderi una giusta dose di faccia tosta combinata con un sincero timore reverenziale, non solo per l’arte di cui sono i portavoce, ma anche per le vicende umane che i volti e i corpi rivelano. Sapevo che David Thomas non gradisce le interviste, sgradevole distrazione che interrompe la concentrazione di un pomeriggio di soundcheck, e che non stima i giornalisti musicali, memore del lontano abbandonato passato in cui, giovane garage-fan, si dedicava a fanzine e recensioni sotto lo pseudonimo di Crocus Behemoth. Per avvicinare Thomas ho scavalcato le resistenze epistolari dell’ufficio stampa e i dubbi dello staff del locale, aggirando gli ostacoli grazie a qualche contatto speso con il tour manager; ma la paura monta durante l’attesa, consumata osservando le rigorose prove dei Pere Ubu e la coraggiosa professionalità del leader, presenza severa nonostante le faticose condizioni fisiche. Quando acconsente all’intervista, non unendosi agli altri per la cena, e sposta il suo eterno cappello a falde larghe per cedermi la sedia accanto a lui, il momento del confronto è arrivato: in una stanzetta a bordo palco condivido pochi metri con quest’uomo dal corpo ingombrante e provato, di cui osservo i movimenti lentissimi e i vestiti sgualciti; nel taschino della camicia David custodisce nemmeno troppo gelosamente sigarette e banconote della nostra valuta, mentre il volto malleabile come gommapiuma cela gli occhi socchiusi, che solo a tratti spalanca rivelandone l’azzurro quasi infantile e tristissimo. La voce è quello stesso sibilo acuminato che rimane fissato dal vinile e che mi tiene a distanza in un’iniziale diffidenza.

Vorrei sapere se credi che il rock possa essere considerato arte.
Naturalmente. Dipende da chi lo fa, dipende da quali sono le sue ambizioni e da quanto è disciplinato; non tutto il rock è arte, ovviamente; è difficile fare rock come forma d’arte perché devi essere disciplinato e devi avere un piano, devi sapere dove stai andando e devi continuare a puntare lì e devi adattarti a ciò che succede.
E ammesso che il rock sia davvero arte, sebbene non in tutte le sue espressioni, pensi che in questa accezione possa anche avere successo?
Ci sono molte persone che fanno grande musica e hanno successo: per esempio Tom Waits, Neil Young… Neil Young è forse il più ammirevole perché ha così tanto successo pur facendo quello che vuole; ci sono molti soldi di mezzo, perciò è da ammirare. È difficile, ma ci sono molti artisti che ci riescono. Comunque, non sono un grande fan di Neil Young.
Quale pensi che sia il rapporto tra l’arte e il periodo storico in cui si sviluppa?
Beh… In generale, a un certo punto devi decidere cosa farai e devi semplicemente perseguirlo; in una certa misura, devi creare il tuo personale intervallo temporale, la tua storia personale e la tua personale versione della realtà, il tuo universo. È molto utile capire la relatività di Einstein, la fisica quantistica e cose simili, almeno per me, e capire la relazione tra l’osservatore e lo scenario: qualcosa non è definito finché non lo osservi. Quindi ogni canzone è un esempio di relatività, ogni canzone è un esempio di continuum spazio-temporale, e all’interno di questo spazio-tempo il cantante crea un universo; l’universo ha le sue regole e leggi fisiche…
Non mi sento a mio agio a parlare di arte, rock, musica, perché quando ero molto giovane ho imparato che le persone che parlano di queste cose in genere non le fanno: se parli troppo di qualcosa, allora non sai cosa stai facendo. Alla fine, penso che l’arte sia basata sulla tua ricerca, sulla tua visione, su quanto ti dedichi e su quanto ti voti ai suoi dettagli, quanti problemi genera per te e quanto sei insoddisfatto. Io sono costantemente insoddisfatto: tutto quello che ho fatto è destinato al fallimento, non sono abbastanza bravo. Ci sono persone non competenti in quello che fanno, che pensano di esserlo; la maggior parte delle persone non colte o non sagge pensano di esserlo, mentre le persone colte e sagge non lo pensano. Questo fa parte della società, puoi vederlo dappertutto: non c’è niente di peggio dei ragazzini che vanno al college credendo di sapere tutto, mentre non sanno niente; sta diventando molto irritante avere a che fare con questo problema continuamente,. Bisogna essere capaci di affrontare il fallimento in proporzioni immense, per fare quello che fai.
Mi chiedevo anche quale fosse la tua opinione riguardo al parlare di musica e arte, ma hai appena risposto. So che hai iniziato come giornalista musicale quando eri un ragazzino, ma poi hai smesso…
E qual è la domanda?
Avevo programmato di chiederti se pensi che sia ragionevole o se valga la pena parlare di musica e arte, ma hai praticamente risposto.
Quello che mi piace è guardare la gente lavorare; posso sedermi e stare a guardare senza sosta le persone fare il soundcheck o qualsiasi altra cosa, perché mi piace vedere come la gente risolve i problemi. Perché una cosa molto importante è come ti comporti quando devi affrontare problemi, tutti hanno gli stessi problemi nel fare canzoni: devi fare canzoni valide, importanti per qualcun altro. Devi iniziare dal principio, qualcosa deve succedere e devi poi concludere. Mi piace guardare persone al lavoro, ma non che la gente ne parli. Non c’è molto di cui parlare nei Pere Ubu, non mi piace affatto che la band parli di certe cose: o agisci, oppure no; se c’è un problema che deve essere risolto, prova semplicemente a fare qualcosa. C’è una canzone che si chiama 414 Seconds… ha qualche problema: all’inizio del tour funzionava, ma andando avanti sono sorte difficioltà; la cosa importante è circondarsi di persone valide e talentuose, con cui non vuoi interferire troppo…altrimenti non ne hai bisogno! Quello di cui ho bisogno è qualcuno che abbia le sue idee e le sue strategie per risolvere i problemi, per capire che cosa è la band in una visione delle cose più ampia.
414 Seconds era la canzone di cui parlavate durante il soundcheck, riferendovi al concerto di ieri?
Sì. Spesso il problema è così facile da risolvere, che non proviamo la soluzione durante il soundcheck, semplicemente andiamo là fuori e tentiamo. Darryl, il clarinettista, è nuovissimo nella band ed era molto sorpreso dal fatto che, quando qualcuno fa qualcosa di davvero buono o facciamo una performance ottima, nessuno dà una pacca sulla spalla a nessun altro; questo è il motivo per cui sei qui: ci si aspetta che tu sia grande, che tu suoni davvero bene, stai solo facendo il tuo lavoro, non c’è ragione di congratularsi per aver fatto il proprio lavoro. La maggior parte delle persone lo troverebbe molto strano. Se abbiamo una cattiva serata… non abbiamo serate veramente CATTIVE, ma abbiamo serate in cui non siamo contenti di come vanno le cose; ma non andiamo fuori di testa per questo e non discutiamo di questo. D’altra parte, nelle serate ottime, non c’è festeggiamento. Quando fai un tour lungo come questo (quattro settimane, venticinque show in ventisei giorni) entri semplicemente in un atteggiamento mentale: l’unico modo per farlo, è che ogni spettacolo deve essere migliore di quello della sera prima, in qualche modo.
Macero in una tensione in cui la curiosità si fonde con il timore di un improvviso malcontento di David; l’istinto di sopravvivenza – o forse la codardia – ha la meglio e immagino che sia più opportuno riportare a casa le altre domande senza risposta.
Per me è ok, se vuoi aggiungere qualcosa…
Io rispondo alle domande, se hai domande…
Ho tantissime domande!
Allora andiamo avanti!
Mi ha colpito che in Cogs, il libro che descrive la creazione del vostro ultimo disco Carnival of Souls, hai chiamato in causa il prog; hai detto che gli Henry Cow sono stati i veri Sex Pistols. In che modo il prog ha influenzato la tua musica, o in che modo ancora ti influenza?
È qualcosa di difficile da descrivere a parole. In questa fase del processo, in cui abbiamo finito l’album ed è uscito da un po’, inizio a pensare al prossimo disco, le idee sono difficili da definire alle altre persone: provo a mettere insieme un’immagine, per i componenti della band. In un certo senso è come la poesia: usi le parole per creare un’immagine che è più ampia della somma delle parole. Ho molto rispetto per il prog: è uno di quei generi in cui la maggior parte è merda, ma quello che è buono è davvero eccezionale; trovi gente, come Peter Hammil, molto appassionata e visionaria, benché faccia prog. Non sono particolarmente affezionato al prog, ma avevo quest’idea: volevo prendere il prog anni ’70 e inserirlo in un universo alternativo, perché nel prog c’era tanto da sviluppare e scoprire sul piano umano. Alla fine non è musica molto umana, è troppo fredda, si allontana dalle passioni. Allo stesso tempo, avevo un’altra idea: volevo condurre la band verso il punto in cui le tecniche e i suoni analogici e quelli digitali diventano indistinguibili gli uni dagli altri, e lo esprimo nei termini di una trasformazione della band in cinque o sei persone che creano musica come se fosse creata con un sintetizzatore, nella sua interezza, non cinque o sei strumenti ma uno strumento. L’ho spiegato dicendo di voler combinare i Kraftwerk con i Suicide, perché i Suicide erano ovviamente estremamente caotici, mentre i Kraftwerk hanno questa attitudine germanica… e allo stesso tempo ho parlato di George Clinton e dei Parliament Funkadelic: volevo creare il Funkadelic bianco, non inteso in termini di mondo razziale ma musicale; i Parliament erano una sorta di pop band, mentre i Funkadelic erano un casino, semplicemente merda che capitava. L’idea dei Pere Ubu è quella garage; non ha addirittura senso parlare dei Pere Ubu a meno che non si capisca che siamo una pop band, che siamo consapevoli della musica pop e che vediamo noi stessi come parte dell’ambito pop: Lady Gaga e i Pere Ubu e i Kasabian sono tutti nella stessa zona; noi siamo pop, ma allo stesso tempo ci piace il noise. La gente si scontra con questo concetto, perché sembrano due cose diverse, ma a noi non sembrano opposte. Forse ha a che fare con l’essere cresciuto ascoltando tutta quella roba negli anni ’60, il garage, che era un casino, roba strana ma anche melodie groovy; era tutto immaturo e incasinato: quei ragazzi che registravano cose…ma non abbiamo mai pensato che fosse estremamente bizzarro.
Com’era la scena garage?
Successe quando ero un ragazzino negli anni ’60… tutte quelle band, che senti nei dischi della serie Nuggets, passavano alla radio, erano popolari in un senso o nell’altro; da un lato, c’erano i Beatles o i Beach Boys, che facevano cose molto elaborate, dall’altro c’era tutto questo garage, fatto semplicemente da ragazzi che facevano dischi in casa. Sono un grande fan dei Beach Boys e di Brian Wilson, e sono anche un grande fan del garage; il problema è che in Europa, o da qualsiasi altra parte, non lo trovavi alla radio, quindi quando il punk è arrivato la mia reazione è stata “Io l’ho già sentito, negli anni ’60: questa è la stessa roba che ascoltavamo alla radio”. In quel periodo tutto era regionale, come suddiviso in isole: l’America era divisa in isole, definite dal segnale di trasmissione delle stazioni radio e TV nelle città; c’erano network nazionali, ma non erano così importanti come quelli locali. Poteva esserci una hit a Cleveland o Detroit che a Los Angeles qualcuno non avrebbe mai sentito. Poi negli anni ’70 tutto iniziò a diventare molto nazionalizzato: i network divennero strettamente controllati. Non sono una di quelle persone che guarda al passato, non sono un nostalgico: le cose accadono, si muovono, in passato c’era esattamente la stessa percentuale di merda in giro rispetto alla roba valida, c’erano macchinari diversi e facevano il meglio possibile a quel tempo. È folle provare a vivere la propria vita nel passato.
Ho risposto a tutte le tue domande? Vai avanti con le domande!
Da oltre mezz’ora sono chiusa in questi pochi metri quadri con un uomo il cui nerbo intellettuale e la cui fisicità ineluttabile mi mettono alla prova: non avrei scommesso un cent sul buon esito di questa intervista, e ancor meno avrei creduto che lo stesso Thomas mi avrebbe incitato a proseguire.
Credi che il web incrementi il processo di perdita…
Ho sentimenti contrastanti riguardo internet. Disprezzo davvero il modo in cui tutti fissano i loro telefoni o computer… sai, Robert nella band è il perfetto esempio di ciò che non riesco a sopportare: è in grado di starsene seduto, di guidare guardando qualche mappa o non so cosa nel suo iPhone e non osserva il mondo.
In Cina hanno creato delle corsie per le persone che controllano il loro smartphone, per evitare che si scontrino tra loro.
Non mi sorprende! Ma, d’altra parte, quando internet è nato molti anni fa, ho subito constatato che l’idea originale era molto buona, era geniale; il problema è che non puoi fare affidamento su nessuna delle informazioni che trovi su internet, perché è molto sottoposto al controllo del “politicamente corretto”. Io odio l’ostilità e la malignità che si generano su internet: se dici qualcosa rispetto a cui qualcuno non è d’accordo, ti arriva addosso una tonnellata di mattoni. Penso che il problema possa essere risolto se si proibissero le foto: abbiamo tutta questa cultura, tutta questa storia e poi qualcuno va a Roma e si fa una foto sorridente davanti al Colosseo, che diventa solo uno sfondo per le immagini di Jerry o July o chiunque altro… non lo sopporto per niente. Il problema di internet è che è pieno di merda: ciò non significa che sia un cattivo strumento, significa solo che le persone lo vedono come se fosse reale, e non lo è. L’informazione è controllata e sterilizzata e ridotta a mero intrattenimento. Io non partecipo, faccio quello che devo fare, uso i computer, ma non gioco o carico foto, io lavoro.
Pensi che la nostra società sia dominata dalla finzione e che si sia persa la connessione con la realtà?
Sì, abbiamo un vero problema rispetto a quello che si considera realtà oggigiorno, perché i media sono la realtà, creano la realtà; molte persone vivono vite estremamente deliranti, basate su questo. In ogni tendenza che si afferma si presenta la stessa situazione: tutti si offendono per qualcosa, tutti aspettano di essere offesi da qualcosa che qualcun altro dice. Tutti ti prevaricano. Io non voglio prevaricare nessuno, non voglio offendere nessuno; ma l’accento è tutto sul mettere a tacere ogni idea che sia problematica. Bene, a me piacciono le idee problematiche, le idee inopportune. Io non mi sono mai sentito offeso da nessuno, le persone possono dire quello che vogliono e, se ti offendi, è perché vuoi essere offeso. Non mi piace che le persone si offendono, ma non mi piace nemmeno sentirmi nella condizione di non poter dire qualcosa. Qual è il problema con quello che dico? Qual è il problema con quello che CHIUNQUE dice? Provare a limitare la conversazione appartiene a una mentalità violenta e cattiva.
Ed è paradossale, perché apparentemente internet sembra garantire la libertà di espressione, ma in realtà non ci si sente liberi di dire tutto.
Io non mi sento libero di dire nulla! A volte semplicemente non voglio problemi, non voglio litigare… non mi interessa. Trovo questa cosa molto preoccupante, perché finisci per auto-censurarti, e questo è terribile. Questo è il piano che loro hanno, questi ingegneri sociali che guidano tutto. Allo stesso tempo, sai che stanno vincendo, ma perché dovrei combattere ogni maledetta battaglia? Non vale il mio tempo, sono vecchio ora, mi rimangono forse dieci o al massimo quindici anni di vita ancora, e ho molto da fare; l’ultimo progetto ha richiesto ai Pere Ubu venti anni per essere realizzato. Il prossimo progetto impiegherà per me dieci anni, e forse non ce la farò! Quindi non ho tempo di cazzeggiare con la gente. Ho un lavoro da fare, finché posso.
Hai già in mente il prossimo progetto dei Pere Ubu?
Il piano decennale è abbastanza semplice: si tratta solo di imparare tutto quello che posso sulla magia e far sì che i musicisti diventino dei maghi. Per magico non intendo “soprannaturale” o “satanico”. Molto tempo fa, a proposito dei maghi ho scoperto che sono proprio come i musicisti: sanno come agiscono le persone. Gli esseri umani reagiscono alle stesse cose. Sai, nelle pellicole hai ventitré o ventiquattro frame al secondo, e percepisci il movimento; ma tra ogni frame c’è uno spazio vuoto, e quello che fa un mago è, prima di tutto, portare tutti nel pubblico allo stesso livello di attenzione, perché ha un ventiquattresimo di secondo per fare qualcosa. Con il suono, è molto più difficile perché il suono, per risultare naturale, deve essere almeno di quarantaquattromila frame al secondo… c’è una grande differenza! Quindi devo risolvere questo. I maghi sono buoni studiosi del comportamento: gli esseri umani sono naturalmente programmati, quando li metti di fronte a qualcosa di totalmente illogico loro sono direttamente condizionati a credere la prossima cosa che dirai o la prossima cosa che accadrà. Li colpisci con qualcosa di sorprendente e poco chiaro, e non ci crederanno; ma crederanno il successivo fatto sorprendente e poco chiaro. I maghi comprendono in modo essenziale il comportamento. Ne so molto ora, ma c’è ancora molto che devo capire riguardo a come portare una band a fare questo; tutto ciò richiederà molto tempo, perché sai che non solo devi allenare le persone con cui stai lavorando, ma anche organizzare i movimenti e imparare le tecniche. È un progetto a lungo termine, poi ho idee su come voglio che sia il prossimo album, sto iniziando a mettere insieme gli elementi per quello.
David Thomas non avrà tempo di consumare la sua frugale cena portata nella stanza in una sporta di plastica ma, in un ultimo impeto di genuina gentilezza, si assicura che io e Valeria saremo accreditate e ci invita a salutare la band con un drink dopo il concerto; questo suggello di cura inattesa smentisce la fama di cinico sofferente bastardo che lo accompagna o, forse, la conferma, facendo di questa serata l’eccezione che mette ciascuno al proprio posto.

 Foto di Valeria Pierini

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