giovedì 4 settembre 2014

Dead Cat in a Bag - Intervista a Luca Andriolo

Quando mi chiedono di intervistare qualcuno desisto sempre, ma in questo caso intervistare Luca Andriolo non è un dovere, quanto un piacere. Di sicuro fare domande, cercare di capire chi o cosa si cela dietro una delle personalità più poliedriche e mistiche che abbia mai conosciuto è cosa non facile, ma ciò che sfuggirà qui, potrete trovarlo nelle sue confessioni in musica  in “Late For a Song” (leggi qui la nostra recensione), il suo ultimo lavoro con i Dead Cat in a Bag. 


- Le tante, troppe fatiche della vita ti hanno visto protagonista su un palco (e non solo metaforico), duro e sul quale non era in scena una commedia. I tuoi spettacoli teatrali, la perdita di una persona a te cara, la tua vita quasi messa a nudo nei tuoi “scritti”. Pensi ci sia troppo di te nei testi o sono semplicemente il mezzo espressivo che ti si avvicina di più per raccontare la vita?

Non credo di avere una biografia così affascinante, anche se è l’unico materiale di partenza disponibile. Di fatto, distinguo sempre la diaristica dalla letteratura, la lamentela dalla lamentazione. Non significa che l’arte debba mistificare, ma almeno tentare di cogliere gli aspetti meno personali e più condivisibili. Il condivisibile porta da un lato al banale (che di solito ha anche un certo successo), dall’altra all’universale. Credo che sia sano ricercare l’universale, tenendo a mente che, nel nostro caso, parliamo solo di canzoni.  Nei momenti più difficili, è quasi sempre una canzone a salvarci. O un vigile del fuoco, in effetti. Ma restiamo nel campo della musica: ovviamente, chi canta, canta di sé. Però c’è modo e modo e serve anche un po’ di pudore. Una certa letteratura ci ha abituati a credere che sia importante far sapere a tutti ogni volta che si vomita, ma vale lo stesso con le volte che ci si innamora. Preferisco l’amore al vomito, perché sono emotofobico. E ho anche un certo sospetto nei confronti del maledettismo, cui pure spesso vengo ricondotto per scelte estetiche e anche per accidenti biografici. Sinceramente, non so davvero che dire di importante e definitivo. Tentiamo di fare una musica onesta, dei concerti spontanei, dei dischi che raccontino cose note da un punto di vista vagamente interessante. Sarà solo la noia a stabilire il confine tra intrattenimento e arte? Non credo: la cosa più importante da fare, coi propri mezzi, per limitati che siano, è quella di non mentire, insomma.


- Chi non sa mentire omette. Dunque sincerità nella vostra musica, nei vostri testi sempre molto intensi, sentiti e che si fanno facilmente sentire. Credi sia facile oggigiorno arrivare all’intima essenza delle persone? E soprattutto quali temi credi che la gente voglia “cantare” o semplicemente “ascoltare”? (al di là della commerciabilità poi del prodotto)

Non so. La gente è… tanta. E diversa.“And just remember different people have peculiar tastes”, cantava Lou Reed, no? C’è chi ascolta Brunori, ma anche chi segue David Tibet. C’è chi stravede per Eros Ramazzotti e chi si delizia con Paolo Conte. E io ascolto tanto Springsteen che Scott Walker. In fondo il mercato viene ricreato costantemente e quasi tutto è moda, comprese le pretese di profondità. Il discorso è troppo più grande di me. Credo che il cuore dell’uomo, il culo della donna, i fastidi d’essere al mondo e la prospettiva di doversene andare siano cose che non sono mai cambiate, temi che troviamo nei lirici greci e nel rock’n’roll. In quest’ultimo, c’è solo uno “yeah” in più.


- Non hai mai paura che la tua musica sia troppo impegnativa per il “nostro”pubblico? E quanto questo riesce ad influenzarti durante la composizione?

Io faccio musica molto semplice, anche perché non credo che saprei fare musica complicata. Tre, quattro accordi. E gli altri Dead Cat, che pure hanno gusti raffinati, sanno sempre intuitivamente scegliere la via della semplicità. Facciamo molta ricerca sui suoni, sui timbri, sull’arrangiamento, sui colori, ma alla fine mi pare che il nostro sia un folk molto diretto. Rispetto a certi miei amici che fanno ricerca sulla musica acusmatica, noi sembriamo persino pop. Ovviamente, tentiamo anche di capire come vestire bene le nostre storie e come trovare un suono che sia personale e interessante. Credo di dover dire che potrebbe piacere a tutti. Ascoltateci, poi ci direte.


- Ecco, ascoltarvi sembra cosa difficile, almeno per chi vi conosce o ha voglia di conoscervi meglio dal vivo.  Mi pare che oggi si partecipi spesso ad un “fascio” di eventi che forse tutto sono tranne che la festa della musica. Preferiresti parteciparvi a prescindere o scegli bene eventuali date? Insomma, ad oggi, è bene parteciparvi purché si venga ascoltati?

Suoniamo poco e mantenendo la dignità. Fare concerti in posti non adatti, di fronte a un pubblico disinteressato e casuale, magari coprendo appena le spese di viaggio, è un modo sicuro per svilire la propria musica e non credo che porti a nulla di buono. Ovviamente il periodo è difficile e via dicendo. Non si può essere troppo snob, ma neanche rovinare tutto ciò che si è costruito per una data in più. A meno che non sia un cosi detto "day off ". In quel caso, però, ci rifacciamo con le birre.


- Come ben si capisce una musica come la vostra non è propriamente commerciale. Ma se la vostra etichetta (che ricordiamo è la ViceVersaRecords) vi proponesse di collaborare con una delle tante band emergenti e non, chi scegliereste?

Noi collaboriamo sempre volentieri con tutti. Abbiamo avuto contributi da Liam MaKahey (Cousteau The Bodies), Marcello Caudullo, Massimo Ferrarotto (Feldmann), Enrico Farnedi, Ivan Bert, Valerio Corzani, Fabrizio Rat Ferrero, Simone Arlorio, Davide Tosches… e ho la fortuna di avere tra i miei amici molti colleghi che stimo tantissimo e che verranno sicuramente coinvolti. C’è molto arricchimento, nella collaborazione. Però personalmente non saprei chi nominare… non siamo già abbastanza faticosamente emergenti da soli? Ci sono in programma un po’ di cose, tuttavia. E una in particolare riguarda Carlo Barbagallo (Suzanne’Silver) e Carlo Natoli (Gentless 3), due musicisti che ammiro molto e che sono anche amici, il che non guasta.


- Volevo essere un tantino più pungente, ma glissare con questi grandi nomi va benissimo. Non possiamo che attendere fiduciosi che tutti questi altri gatti escano dal sacco con voi.

Sto corteggiando Julia Kent da un po’. Ne parliamo sempre, ma ci sono troppi impegni in mezzo. E ci sono altri bei nomi che attendono, ma non facciamo promesse.


- Cantare in inglese sembra oggi una scelta che vada per la maggiore, voi siete andati oltre con Za późnonapiosenke, che seppur strumentale ci fa capire che il vostro inglese non sia una scelta dettata dal momento. Dunque? Affinità stilistiche con qualcuno? Semplice comodità o semplice voglia di non farsi capire dai molti?

Davvero va per la maggiore? A me pare il contrario: canta pure cretinate, ma cantale in italiano. Meglio se con le vocali molto aperte. Per noi l’inglese è una scelta coerente, ma non definitiva. Non ci immedesimiamo più di tanto nella scena locale, con tutti i problemi che ciò comporta. Mi piacciono le definizioni di noi che leggo in giro, mi paiono affascinanti ed avventurose: gitani gotici, bluesmen postatomici, chansonniers desertici… Ci va una lingua universale. Secondo me Bjork non canta in Finlandese proprio per farsi capire da un’audience maggiore.


- Late For a Song è il secondo album con il tuo progetto aperto e multiforme dei Dead Cat in a Bag. Cosa ha in più o in meno al precedente album Lost Bags?

Credo che i due album siano complementari. Il primo è stato fondamentalmente l’opera di un duo, formato da Roberto Abis e me. Il lavoro finale è stato fatto da Marcello Caudullo, che ha raccolti i pezzie ordinato le cose, gestendoci anche in una vera sala d’incisione, cosa che non deve essere stata facile. Late for a Song, invece, è stato prodotto da Roberto e seguito in modo maniacale anche dal sottoscritto, con altri mezzi. E sebbene abbia per molti versi la stessa impostazione, durante la registrazione ha cominciato a delinearsi l’idea di una vera e propria band. Andrea Bertola, Scardanelli e David Proietto hanno dato un contributo maggiore, mentre Roberto si è concentrato in un modo molto personale sui suoni e sulla produzione, dando all’album una profondità e un’omogeneità che Lost Bags non aveva, essendo composto in periodi diversi, registrato in un tempo molto lungo e basato su una certa eterogeneità. Ora, credo che dal vivo le cose si presentino ancora diverse. Probabilmente il prossimo obiettivo sarà quello di riuscire a catturare quell’energia e quell’immediatezza.  A me piace che i Dead Cat in a Bag siano così multiformi.



- Futura ricerca di energia e immediatezza, ma abbiamo detto per ora“musica semplice”. Al riguardo qualcuno diceva che dentro dei semplici racconti l’uomo incastona i suoi valori e i suoi insegnamenti, risponde ai suoi interrogativi più potenti. In Late for a Song con il tuo/vostro lavoro, cosa hai voluto incastonare?

C’è chi crede che i Dead Cat parlino sempre di morte, ma a me pare che parlino sempre di bellezza. Soprattutto, c’è molta ironia in quello che facciamo e anche nel modo in cui lo facciamo. Anche i momenti più grevi e lamentosi nascondono il sorriso del paradosso. Chi ci ha visti dal vivo lo sa: oserei dire che siamo persino divertenti!


- Chi ama la vostra musica, la vostra ironia e la vostra carica, è riuscito a farlo fin dal primo momento. Ci sono cose che si sentono, ascoltano, ripetono e vivono all’infinito in alcune frasi, musiche e ritmi. Chiudere ora con un saluto è cosa banale, quindi vado di “saggezza”. Qualora sentissi la tua musica come risposta, quale credi possa essere la domanda?

La domanda sarebbe: ne vale la pena?

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