Quando mi
chiedono di intervistare qualcuno desisto sempre, ma in questo caso
intervistare Luca Andriolo non è un dovere, quanto un piacere. Di sicuro fare
domande, cercare di capire chi o cosa si cela dietro una delle personalità più poliedriche
e mistiche che abbia mai conosciuto è cosa non facile, ma ciò che sfuggirà qui,
potrete trovarlo nelle sue confessioni in musica in “Late For a Song” (leggi qui la nostra recensione), il suo ultimo lavoro
con i Dead Cat in a Bag.
- Le tante, troppe fatiche della vita ti hanno visto protagonista su un palco (e non solo metaforico), duro e sul quale non era in scena una commedia. I tuoi spettacoli teatrali, la perdita di una persona a te cara, la tua vita quasi messa a nudo nei tuoi “scritti”. Pensi ci sia troppo di te nei testi o sono semplicemente il mezzo espressivo che ti si avvicina di più per raccontare la vita?
Non
credo di avere una biografia così affascinante, anche se è l’unico materiale di
partenza disponibile. Di fatto, distinguo sempre la diaristica dalla
letteratura, la lamentela dalla lamentazione. Non significa che l’arte debba
mistificare, ma almeno tentare di cogliere gli aspetti meno personali e più
condivisibili. Il condivisibile porta da un lato al banale (che di solito ha
anche un certo successo), dall’altra all’universale. Credo che sia sano
ricercare l’universale, tenendo a mente che, nel nostro caso, parliamo solo di
canzoni. Nei momenti più difficili, è
quasi sempre una canzone a salvarci. O un vigile del fuoco, in effetti. Ma
restiamo nel campo della musica: ovviamente, chi canta, canta di sé. Però c’è
modo e modo e serve anche un po’ di pudore. Una certa letteratura ci ha
abituati a credere che sia importante far sapere a tutti ogni volta che si
vomita, ma vale lo stesso con le volte che ci si innamora. Preferisco l’amore
al vomito, perché sono emotofobico. E ho anche un certo sospetto nei confronti
del maledettismo, cui pure spesso vengo ricondotto per scelte estetiche e anche
per accidenti biografici. Sinceramente, non so davvero che dire di importante e
definitivo. Tentiamo di fare una musica onesta, dei concerti spontanei, dei
dischi che raccontino cose note da un punto di vista vagamente interessante. Sarà
solo la noia a stabilire il confine tra intrattenimento e arte? Non credo: la
cosa più importante da fare, coi propri mezzi, per limitati che siano, è quella
di non mentire, insomma.
- Chi non sa
mentire omette. Dunque sincerità nella vostra musica, nei vostri testi sempre
molto intensi, sentiti e che si fanno facilmente sentire. Credi sia facile
oggigiorno arrivare all’intima essenza delle persone? E soprattutto quali temi
credi che la gente voglia “cantare” o semplicemente “ascoltare”? (al di là
della commerciabilità poi del prodotto)
Non
so. La gente è… tanta. E diversa.“And just remember different
people have peculiar tastes”, cantava Lou Reed, no? C’è chi ascolta
Brunori, ma anche chi segue David Tibet. C’è chi stravede per Eros Ramazzotti e
chi si delizia con Paolo Conte. E io ascolto tanto Springsteen che Scott
Walker. In fondo il mercato viene ricreato costantemente e quasi tutto è moda,
comprese le pretese di profondità. Il discorso è troppo più grande di me. Credo
che il cuore dell’uomo, il culo della donna, i fastidi d’essere al mondo e la
prospettiva di doversene andare siano cose che non sono mai cambiate, temi che
troviamo nei lirici greci e nel rock’n’roll. In quest’ultimo, c’è solo uno
“yeah” in più.
- Non hai mai
paura che la tua musica sia troppo impegnativa per il “nostro”pubblico? E
quanto questo riesce ad influenzarti durante la composizione?
Io
faccio musica molto semplice, anche perché non credo che saprei fare musica
complicata. Tre, quattro accordi. E gli altri Dead Cat, che pure hanno gusti
raffinati, sanno sempre intuitivamente scegliere la via della semplicità.
Facciamo molta ricerca sui suoni, sui timbri, sull’arrangiamento, sui colori, ma
alla fine mi pare che il nostro sia un folk molto diretto. Rispetto a certi
miei amici che fanno ricerca sulla musica acusmatica, noi sembriamo persino
pop. Ovviamente, tentiamo anche di capire come vestire bene le nostre storie e
come trovare un suono che sia personale e interessante. Credo di dover dire che
potrebbe piacere a tutti. Ascoltateci, poi ci direte.
- Ecco,
ascoltarvi sembra cosa difficile, almeno per chi vi conosce o ha voglia di
conoscervi meglio dal vivo. Mi pare che
oggi si partecipi spesso ad un “fascio” di eventi che forse tutto sono tranne
che la festa della musica. Preferiresti parteciparvi a prescindere o scegli
bene eventuali date? Insomma, ad oggi, è bene parteciparvi purché si venga
ascoltati?
Suoniamo
poco e mantenendo la dignità. Fare concerti in posti non adatti, di fronte a un
pubblico disinteressato e casuale, magari coprendo appena le spese di viaggio, è
un modo sicuro per svilire la propria musica e non credo che porti a nulla di
buono. Ovviamente il periodo è difficile e via dicendo. Non si può essere
troppo snob, ma neanche rovinare tutto ciò che si è costruito per una data in
più. A meno che non sia un cosi detto "day off ". In quel caso, però, ci
rifacciamo con le birre.
- Come ben si
capisce una musica come la vostra non è propriamente commerciale. Ma se la
vostra etichetta (che ricordiamo è la ViceVersaRecords) vi proponesse di collaborare con una delle
tante band emergenti e non, chi scegliereste?
Noi
collaboriamo sempre volentieri con tutti. Abbiamo avuto contributi da Liam MaKahey
(Cousteau The Bodies), Marcello Caudullo, Massimo Ferrarotto (Feldmann), Enrico
Farnedi, Ivan Bert, Valerio Corzani, Fabrizio Rat Ferrero, Simone Arlorio,
Davide Tosches… e ho la fortuna di avere tra i miei amici molti colleghi che
stimo tantissimo e che verranno sicuramente coinvolti. C’è molto arricchimento,
nella collaborazione. Però personalmente non saprei chi nominare… non siamo già
abbastanza faticosamente emergenti da soli? Ci sono in programma un po’ di
cose, tuttavia. E una in particolare riguarda Carlo Barbagallo (Suzanne’Silver)
e Carlo Natoli (Gentless 3), due musicisti che ammiro molto e che sono anche
amici, il che non guasta.
- Volevo essere
un tantino più pungente, ma glissare con questi grandi nomi va benissimo. Non
possiamo che attendere fiduciosi che tutti questi altri gatti escano dal sacco
con voi.
Sto
corteggiando Julia Kent da un po’. Ne parliamo sempre, ma ci sono troppi
impegni in mezzo. E ci sono altri bei nomi che attendono, ma non facciamo
promesse.
- Cantare in
inglese sembra oggi una scelta che vada per la maggiore, voi siete andati oltre
con Za późnonapiosenke, che seppur
strumentale ci fa capire che il vostro inglese non sia una scelta dettata dal
momento. Dunque? Affinità stilistiche con qualcuno? Semplice comodità o semplice
voglia di non farsi capire dai molti?
Davvero
va per la maggiore? A me pare il contrario: canta pure cretinate, ma cantale in
italiano. Meglio se con le vocali molto aperte. Per noi l’inglese è una scelta
coerente, ma non definitiva. Non ci immedesimiamo più di tanto nella scena
locale, con tutti i problemi che ciò comporta. Mi piacciono le definizioni di
noi che leggo in giro, mi paiono affascinanti ed avventurose: gitani gotici,
bluesmen postatomici, chansonniers desertici… Ci va una lingua universale. Secondo
me Bjork non canta in Finlandese proprio per farsi capire da un’audience
maggiore.
- Late For a Song
è il secondo album con il tuo progetto aperto e multiforme dei Dead Cat in a
Bag. Cosa ha in più o in meno al precedente album Lost Bags?
Credo
che i due album siano complementari. Il primo è stato fondamentalmente l’opera
di un duo, formato da Roberto Abis e me. Il lavoro finale è stato fatto da
Marcello Caudullo, che ha raccolti i pezzie ordinato le cose, gestendoci anche
in una vera sala d’incisione, cosa che non deve essere stata facile. Late for a
Song, invece, è stato prodotto da Roberto e seguito in modo maniacale anche dal
sottoscritto, con altri mezzi. E sebbene abbia per molti versi la stessa
impostazione, durante la registrazione ha cominciato a delinearsi l’idea di una
vera e propria band. Andrea Bertola, Scardanelli e David Proietto hanno dato un
contributo maggiore, mentre Roberto si è concentrato in un modo molto personale
sui suoni e sulla produzione, dando all’album una profondità e un’omogeneità
che Lost Bags non aveva, essendo composto in periodi diversi, registrato in un
tempo molto lungo e basato su una certa eterogeneità.
Ora, credo che dal vivo le cose si presentino ancora diverse. Probabilmente il
prossimo obiettivo sarà quello di riuscire a catturare quell’energia e
quell’immediatezza. A me piace che i
Dead Cat in a Bag siano così multiformi.
- Futura ricerca
di energia e immediatezza, ma abbiamo detto per ora“musica semplice”. Al
riguardo qualcuno diceva che dentro dei semplici racconti l’uomo incastona i
suoi valori e i suoi insegnamenti, risponde ai suoi interrogativi più potenti.
In Late for a Song con il tuo/vostro lavoro, cosa hai voluto incastonare?
C’è
chi crede che i Dead Cat parlino sempre di morte, ma a me pare che parlino
sempre di bellezza. Soprattutto, c’è molta ironia in quello che facciamo e
anche nel modo in cui lo facciamo. Anche i momenti più grevi e lamentosi
nascondono il sorriso del paradosso. Chi ci ha visti dal vivo lo sa: oserei
dire che siamo persino divertenti!
- Chi ama la
vostra musica, la vostra ironia e la vostra carica, è riuscito a farlo fin dal
primo momento. Ci sono cose che si sentono, ascoltano, ripetono e vivono
all’infinito in alcune frasi, musiche e ritmi. Chiudere ora con un saluto è
cosa banale, quindi vado di “saggezza”. Qualora sentissi la tua musica come
risposta, quale credi possa essere la domanda?
La
domanda sarebbe: ne vale la pena?
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