Foto by Valeria Pierini |
Raramente capita di imbattersi
nel carisma incarnato e personificato come accade con Alan Sparhawk. Dopo aver
attraversato il palco ed essere state presentate a Mimi Parker, io e la mia
fotografa ci facciamo strada tra le file del cinema modernista datato 1939,
fino a imbatterci nella penombra con questo ragazzo arruffato che, stringendo
la mia piccola mano fra le sue enormi, si avvicina rivelandosi come quello
stesso uomo americanissimo visto in centinaia di foto. Scortandoci dietro al
palco, in un corridoio inondato di luce giallastra esattamente tra i bagni e
l’uscita degli artisti, si siedono, lei con una dolcezza campestre d’altri
tempi, lui esalando fascino inaspettato, dispensato più o meno coscientemente
nei movimenti che animano il suo corpo minuto.
Ho letto che ad Alan non
piacciono particolarmente le interviste. “Ma le faccio tutte!” Interrompe divertito con la sua voce risonante e
palpabile. “O forse non ti piacciono i giornalisti?” Ridendo all’unisono con me
e la moglie, riflette: “Non so… Penso che sia piuttosto entusiasmante
a volte… mentre a volte può essere molto fastidioso. Non mi dispiace rilasciare
interviste, a parte forse alcune davvero bizzarre” “Perché a volte lo sono i giornalisti?” “Non mi sono mai sentito a disagio”. “C’è anche chi adora fare interviste” interviene Mimi, prima che Alan colga il nucleo della questione: “Che
qualcuno si interessi alla tua arte, alla tua musica e abbia delle domande da
porre può essere molto lusinghiero, e diventare una cosa molto indulgente. Però
potrebbe coglierti impreparato, l’essere spinto a guardarti dall’esterno,
quando qualcuno ti chiede le ragioni delle tue scelte. Comunque noi non siamo molto famosi; non
riesco nemmeno ad immaginare come ci si senta a essere in una band che deve
fare interminabili sessions di interviste. Essere in una band più grande, per
esempio gli Arcade Fire, significa dover fare dei veri e propri tour di tre
mesi solo per le interviste”. La profondità
esattamente consapevole delle risposte mi induce involontariamente ad uscire
allo scoperto, ammettendo che a volte mi sento a disagio a intervistare,
temendo che i musicisti possano annoiarsi. Mimi educatamente conferma, mentre
la benevolenza del suo sguardo mi infonde sicurezza: “A volte. Capita
spesso che i giornalisti facciano sempre le stesse domande, e a quel punto
potremmo semplicemente consegnare un foglio con le risposte già preparate”.
“Ecco perché ero preoccupata
delle domande che vi avrei fatto”. Ridono ancora, stemperando il mio imbarazzo
reverenziale, dissolto definitivamente da Alan: “Non dovresti preoccuparti,
è comprensibile che le persone vogliano sapere della tua vita, anche di aspetti
personali”. “Quindi possiamo iniziare con
l’intervista” azzardo divertita, suscitando un nuovo coro di risate.
Dopo essermi messa in ridicolo
per i primi dieci minuti, ricordo di avere anche delle velleità professionali:
“The Invisible Way è uscito dopo
vent’anni di attività. A me sembra che la vostra discografia abbia una coerenza
particolare, che, considerata complessivamente, suoni come un processo molto
spontaneo. Questa spontaneità generale è il risultato di un impegno, affinché
suonasse come qualcosa di così ‘completo’”? “Penso che lo sforzo sia
stato più nel non pianificare, nel non organizzare”. “Sì, non abbiamo pianificato molto”, conferma Alan. “La parola ‘spontaneo’ è
molto appropriata. Quando scrivi canzoni e poi le metti insieme non puoi
davvero dire che direzione prenderai; finiresti per deludere te stesso se
conoscessi la direzione in cui stai andando”.
“Non sapere dove si sta andando è
più stimolante? “È più naturale, avere fiducia nel fatto che sarai sempre
tu, non importa dove arriverai”.
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“Dopo due dischi, The Great
Destroyer e Drums and Guns, in cui avete deciso di aggiungere qualcosa al
vostro suono, in C’mon e The
Invisible Way la vostra ricerca sembra
focalizzata su un suono più minimale e più ‘classico’, in un certo senso. È
stata una scelta consapevole?” “Il processo della registrazione è
molto diverso da quello della scrittura”
replica Mimi, assecondando la mia curiosità verso la sua riservatezza docile. “Scrivere
è molto più naturale, mentre quando entri in studio puoi scegliere. Comunque
sia, per C’mon e soprattutto per The Invisible Way le canzoni erano già
molto minimali dal punto di vista della scrittura. A Jeff Tweedy [dei Wilco, il produttore] sono piaciute
così com’erano e una volta in studio è stato abbastanza evidente che le avremmo
registrate in quel modo”.
Il succedersi delle loro risposte
sembra sviluppare implicitamente le mie intenzioni, quasi anticipando e
sollecitando le domande che ho in serbo. “Voi avete lavorato con produttori
significativi e molto diversi tra loro, come Albini, Beckley, Fridmann. In
quale misura il lavoro del produttore influenza la vostra creatività?” “La produzione
rientra tra le cose che puoi scegliere”
sentenzia Alan dopo un silenzio densissimo. “Quando decidi di
lavorare con una persona sai che ha un certo stile, ed è molto interessante
confrontarsi con il suo approccio. Penso che principalmente ha a che fare con
il fidarsi della persona con cui lavorerai, perché può sempre portare qualcosa
a cui non avevi pensato”. Mimi concorda,
spostando la questione anche sul piano personale e infine ridendo ancora: “È
importante avere qualcuno che dia il proprio contributo; voglio dire, noi
passiamo davvero molto tempo insieme!”. Le
loro osservazioni mi conducono naturalmente a chiedere del ruolo del bassista,
che hanno cambiato più volte nel corso degli anni intorno al nucleo permanente
della loro coppia. “Il vostro terzo componente come contribuisce al lavoro
della band? È coinvolto anche nella scrittura in qualche modo?” Mimi asserisce
che Steve, l’attuale bassista, ha buone idee per quanto riguarda la scrittura,
mentre Alan prosegue idealmente il discorso dal concetto precedente. La sua
voce ha il suono di un’arte involontaria, fatta di parole che escono una dopo
l’altra casualmente esatte e poi si arrestano, fino alla sillaba spezzata che
lascia le sue labbra e precipita nel mondo. “Penso che in qualche
modo funzioni un po’ come con il produttore, avere una persona che rende quello
che facciamo ‘tridimensionale’. Noi scriviamo canzoni da molti anni e lavoriamo
insieme da molto tempo, mentre molte persone diverse sono andate e venute; mi
rendo conto che è dura restare con noi e provo grande rispetto per le persone
che ci riescono”.
“Mi piacerebbe parlare del fatto
che per voi la sfera personale e il vostro lavoro, la musica, sono
inseparabili. Come gestite questo collegamento”? “A volte è difficile
portare il matrimonio nella band e in tour e viceversa la band a casa. Suppongo
sia interessante ma devi provare a far funzionare le cose”. Ma è ancora Alan a centrare il punto: “Credo
che ogni coppia che lavora insieme abbia a che fare con questi problemi. Hai il
doppio delle cose da gestire insieme. Ma allo stesso tempo noi facciamo
qualcosa di creativo e davvero gratificante, qualcosa di spirituale che puoi
condividere con la persona che ami. È qualcosa che non scambierei con
nient’altro”. L’intensità di questa persona
è una qualità che raramente ho incontrato eppure mi è familiare, è l’essenza
che identifica i musicisti al di là del talento o delle qualità umane, è
un’attitudine alla vita di desiderio e insieme tristezza vibrante manifestata
nell’accidentalità dei gesti sparsi, nella mano che scompiglia i capelli
arruffati o nel modo confidente e scomposto di sedersi; una qualità che
deflagra nel mondo e suo malgrado fagocita chi sta intorno.
Fatico a concentrarmi sulle
parole, io che le domino, perché più che la logica ora ha potere la musica, il
suono involontario come un’eco costante emanata senza sforzo. “Per quanto
riguarda la componente spirituale della vostra vita e della vostra musica, ho
percepito in The Invisible Way
un’atmosfera decisamente spirituale. Era un vostro obiettivo riuscire a
crearla?” “Penso che quello era lo scopo. Tutto è spirituale, tutti
possediamo una natura spirituale. È sempre in quello che facciamo o che
diciamo, è in tutti, anche in chi non lo sa”.
“E se doveste dire una cosa o le cose principali in cui trovate ancora
ispirazione e motivazione nel fare musica dopo vent’anni, quali sarebbero?” “I
nostri bambini. E anche il fatto di avere avuto esperienze così intense nel
corso degli anni nel fare quello che facciamo…”
“Dopo tutti questi anni è ancora così eccitante e gratificante” conferma Mimi. Ora si incastrano quasi
sovrapponendosi. “È come
partire dal nulla di nuovo ogni volta”,
sentenzia Alan, mentre lei osserva che l’ispirazione viene da molte fonti
diverse e che aprirsi è la chiave.
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Voglio che a chiudere sia una
domanda sulle loro esibizioni, a cui ancora non ho mai assistito ma che ho
saputo essere folgoranti: “Penso che la vostra attitudine minimalista richieda
una concentrazione particolare, soprattutto durante le performance live, da parte
del pubblico. Siete d’accordo?” Mimi annuisce, mentre il marito entra nel
dettaglio, per poi concentrarsi su una riflessione tutt’altro che scontata: “Sì,
è molto evidente per esempio durante i festival, quando ci sono persone venute
per sentire altre band e capita che parlino sopra la nostra musica, perché è
molto tranquilla. Ma quando addirittura riesci a percepire come muovi l’aria
hai una sensazione strana, non è mai facile ma se puoi davvero trasmettere
qualcosa al pubblico è davvero intenso e soddisfacente. Ma le esibizioni sono
imperfette e quando facciamo errori ci sembra sempre così evidente…” Io
assicuro che il pubblico non se ne accorge mai, innescando una nuova
cascata di risate su cui Alan conclude: “Sì, anche io me ne convinco
e penso ‘bene andiamo avanti e dimentichiamo’”.
Consapevole di non essere
riuscita a dissimulare l’emozione e il rispetto, nascondendo l’empatia del
seguace e rivestendola di professionale distacco, abbandono ogni difesa e
sfodero i vinili portati da casa per il feticcio degli autografi, siglati
incomprensibilmente con il mio grosso pennarello nero. I don’t discriminate,
I hate everyone, proclama la spilla
appuntata sulla mia borsa: spero non la notino, perché in questo momento è una
bugia.
Leggi qui il report el concerto.
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