Foto di Valeria Pierini |
La prima fulminea intervista
telefonica si consuma con l’immediatezza confusa di un one-night stand,
nonostante il mio iniziale approccio circospetto: al generico interrogativo
sull’evoluzione della loro ricerca musicale nel corso degli anni, Randy Randall
risponde che evidentemente cercano progresso ed evoluzione, ma che il punto è
continuare a mettere alla prova se stessi, andando spontaneamente incontro alle
sfide. Accodandomi alla sequela di giornalisti che hanno interrogato il duo
sulla scelta di occuparsi personalmente della realizzazione materiale del
disco, tento l’attacco diretto; ma alla mia domanda, se il titolo si riferisca
esplicitamente alla produzione fisica, il chitarrista replica con un lapidario
“Definitivamente. Il titolo racchiude perfettamente l’idea di quel processo”.
Evidentemente ne hanno abbastanza dei giornalisti curiosi e delle loro
illazioni su intenzioni recondite; e sfoggiano noncuranza anche nei confronti
delle aspettative del proprio seguito: “Normalmente non riflettiamo su quello
che il nostro pubblico si aspetta; semplicemente portiamo avanti la nostra
ricerca e i nostri tentativi di sperimentazione, senza sentire la pressione dei
nostri fan che in qualche modo ci ‘osservano”.
Mentre faticosamente formulo la
domanda che più mi preme, la tecnologia mi abbandona, e la voce di Dean Allen
Spunt compare ignara alla nuova telefonata. “Apparentemente, l’attitudine punk
può sembrare in contrasto con lo status di un musicista professionista” mi
trovo a ripetere. “Come conservate l’urgenza espressiva che avevate agli
esordi?” “Questa è una buona
domanda. Non è tanto una questione di ‘conservare’ quell’urgenza; troviamo
ancora urgenza nei live, nel fatto che quando sali sul palco devi accettare
tutto quello che può succedere e tenerti aperto mentalmente. È questa apertura
mentale che conserva la passione”.
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Ma ci sono prove che richiedono
ben altro allenamento, e un’intervista face to face non può essere soddisfatta
dal semplice approccio giornalistico. Quello che io suppongo valga la pena far
sapere è oltrepassato dall’affetto e dalla dedizione del devoto: per le mie
insinuazioni critiche e le mie ipotesi interpretative cerco ora il supporto del
mio nuovo capo nella Black Vagina Records, l’estimatore della prima ora Marmo A
Colazione, che mi offre nuove osservazioni puntuali.
Con il taccuino gremito di
appunti, attendo nell’estemporanea primavera romana: Dean si presenta per
primo, con la chioma arruffata e magnetici occhi verdi montati su un naso
prorompente, mentre il berretto calato e la felpa stinta degna di anni liceali
conferiscono a Randy una perfetta attitudine slacker, correlativo oggettivo
calzante alle loro melodie indolenti di acido noise-pop.
“Perché avete deciso di
realizzare il disco voi stessi in ogni sua fase? È stata una sorta di
‘reazione’ all’affermazione dello streaming e del download?” Dean accavalla le
gambe magrissime e fissa il suo sguardo nel mio: “Non è stata una ‘reazione’,
anche noi siamo a favore della diffusione web della musica, dello streaming
soprattutto. È stata più che altro una sfida, ci siamo detti ‘vediamo se
possiamo farlo’. Non è stato particolarmente duro o faticoso, non più che
andare in tour”. Mi sono chiesta se l’operazione sottintendesse l’intenzione di
acquisire una credibilità artistica, o se piuttosto non l’abbiano concepita
come un’attività meramente manuale, se si siano sentiti come degli artigiani.
“Direi decisamente più artigianale, è stato come fare un lavoro ‘normale’ ”.
“Pensate che l’idea di occuparvi
voi stessi della realizzazione abbia in qualche modo influenzato i consumatori?”
“Sicuramente chi lo compra torna a casa con qualcosa di più personale, ma non
penso che in fondo abbia un impatto particolare”.
Le canzoni di An Object sembrano episodi isolati, come conversazioni
mattutine al telefono fisso imbevute di sospensione; l’apatia studiata si
articola in tentazioni di pop scarno e offuscato, spolverato di
micro-accorgimenti nell’arrangiamento. Insisto sul legame tra la composizione
creativa e l’intento manufatturiero, chiedendo se il processo abbia influenzato
la scrittura e la registrazione delle canzoni. Dean si espone: “Da un punto di
vista lirico è stato più facile scrivere, partendo anche dall’idea di dover
lavorare materialmente sul nostro disco”. Mentre Randy ammette le sue
perplessità: “All’inizio pensavo che sarebbe stata una perdita di tempo. Ma
dopo sono stato contento, anche del fatto che abbia reso l’intero processo più
‘lento’ ”.
Sin dal primo ascolto, le
dissonanze controllate e il brontolio indistinto delle chitarre di An Object mi hanno rimandato direttamente ai Wire, come se fra
Pink Flag e Chairs
Missing avessero trovato un semitono
intermedio in cui l’immediatezza punk non è più disordine ma non è ancora
sghemba incostanza melodica. “Come spiegate l’impressione che, nel corso degli
anni, l’influenza del post punk di fine anni Settanta – inizio anni Ottanta sia
più evidente nella vostra musica?” “Cosa intendi per ‘post punk’?” incalza
Randy. “I Wire soprattutto, o i Fall ad esempio”. Ma da sotto il berretto
calato, continua a non seguirmi: “Non direi di aver ascoltato molto post punk,
piuttosto Captain Beefheart o del pre-punk”. Dean invece, continuando a
lanciare sguardi di liquida approvazione, conferma le mie intuizioni: “Non
trovo ispirazione dal post punk più ‘arty’, ma sicuramente da quello minimale”.
Acquisisco sufficiente disinvoltura per osare: “Mi è sembrato che il disco
suoni come una sorta di livello transitorio tra Pink Flag e Chairs Missing”. “Adoro Chairs Missing, e mentre registravamo mi capitava di suonare
qualche brano dal quel disco”.
Cerco altri riferimenti che
possano soddisfare anche Randy: “Per quanto riguarda lo shoegaze, è
un’influenza importante per voi? Pensate di proporne una versione personale e
originale?” “Decisamente i My Bloody Valentine. Quando è uscito il nuovo disco
– in tutti i formati, LP, CD e MP3 – l’ho messo su e l’ho ascoltato quattro
volte di fila, non riuscivo a toglierlo. C’era il rischio che suonasse scontato
o poco curato, ma invece non sono stato deluso. E se anche fosse stato un disco
un po’ debole, l’avrei apprezzato comunque. Voglio dire, fare un disco dopo
venticinque anni non è troppo”.
Il processo compositivo
incentrato sull’interazione tra i due si struttura secondo la semplificazione
lineare della sovrapposizione, che sceglie di evitare la variazione tonale, ritmica
o melodica; ipotizzo che il preservare la propria identità artistica di duo
condizioni anche le forme espressive: “Sentite mai il bisogno di allargare la
vostra line-up?”. Dean richiama direttamente l’esperienza live: “Nell’ultimo
tour avevamo un terzo membro che suonava i samples. Era un nostro amico, ma ci
siamo resi conto che non era necessario. Per noi la sfida è provare a rendere
dal vivo più suoni possibile di quelli che sono nel disco”. “Ma pensate che la
percezione da parte del pubblico di voi come ‘duo’ influenzi la scelta di
conservare questa formazione o di impegnarsi in collaborazioni?” “Al di fuori
della band abbiamo molte collaborazioni, e sono sufficienti per noi”. Sentenzia
Dean. “Penso che i nostri fan possano influenzare fino a un certo punto la
nostra scelta di fare collaborazioni esterne o il contributo di altri musicisti
ai nostri dischi”.
Ho tenuto in serbo la domanda più
insidiosa, a cui potrebbe seguire una svogliata alzata di spalle di chi non ha
mai riflettuto sull’intenzione che si cela oltre il proprio percorso artistico.
Oppure, come accade con i No Age, suscitare le osservazioni più attente e
rivelare la percezione di una band di sé e della relazione con il proprio
pubblico. “Vi sentite più come una band riflessiva e introspettiva o più come
una band istintiva e ‘muscolare’? Randy non vede necessariamente le due cose
come separate. “È questo che rende la musica interessante, che garantisce
onestà e originalità: come artista devo fare qualcosa di originale che
stabilisca una connessione con le persone. Come band dobbiamo chiederci cosa
abbiamo da offrire. Per questo tra l’elemento intellettuale e quello fisico c’è
sempre un equilibrio, un legame”. “Sul palco tendiamo a rendere le canzoni più
‘fisiche’, hanno più sostanza. All’inizio i nostri pezzi erano più
‘intellettuali’…” interviene Dean, prima che il compare lo interrompa: “Forse
perché non suonavamo molto…”. Dean riprende il filo, andando indietro con la
memoria a un momento impreciso, in cui probabilmente ancora andavano definendo
la propria stessa attitudine: “Quando per la prima volta durante un concerto a
Baltimora la gente ha iniziato a saltare e urlare, questo mi ha reso più
coinvolto; quando vediamo il pubblico muoversi riusciamo a dare di più”. Mi
chiedo, a questo punto, se sia più difficile quando il pubblico non è coinvolto. “Sì, ma essendo dei
professionisti, riusciamo a suonare. E cerchiamo comunque di divertitici”.
Randy vuole precisare: “Però la situazione non deve neanche essere troppo
violenta, come quando mi afferrano la chitarra e io dico ‘ehi questa mi serve
per suonare!’. Una volta un ragazzo voleva a tutti i costi suonare il basso… ma
quando l’abbiamo fatto salire sul palco non conosceva nemmeno una canzone. Il
punto è che quando suoni non dovresti farlo solo per te stesso”. Il silenzio
introverso di Dean è un sottofondo ininterotto al racconto, di chi non si
estrania eppure attende paziente: “È come un dialogo” interviene con il piglio
dell’epilogo. “In una conversazione deve esserci questa sorta di circolarità,
altrimenti è tutto più difficile”.
La loquacità con cui hanno
riempito quasi un’ora in questo giardino deserto mi indurrebbe a chiedere
ancora; ma chiudere la confessione prima di averla esaurita mi lascia una
piacevole tensione, nell’attendere il concerto con curiosità infantile.
Dopo un estenuante opening act, i
due ricompaiono sul palco con sfrontatezza inattesa. La chitarra di Randy è
graffiata da riff retrò perfetti per scuotere la chioma non curata, che
disturbano improvvisi il sommesso roboare costante; l’abituale coltre di
feedback caliginoso avvolge la declamazione di Dean, una catena di sillabe
dilatate come gomma da masticare. Negli anni ho appreso che, mentre nelle altre
categorie di musicisti si annoverano le più varie tipologie fisiche e gli
approcci allo strumento più disparati, i batteristi sono di due specie: gli
orsi montani che picchiano con vigorose zampate e i felini selvatici che
aggrediscono le percussioni con assalti fulminei. Inutile dire a quale razza è
da sempre rivolta la mia adorazione che, inaspettatamente, trova in Dean un
esemplare notevole: impavido anche quando imbraccia il basso, non si risparmia
nell’ora strettissima ma goduta di concerto conclusa con l’omaggio ai Black
Flag, disgustosamente e degnamente sudato come solo un batterista ferino può
permettersi.
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