venerdì 23 maggio 2014

The pain that’s yet to come – Intervista a Matt Elliott, 07/03/2014, Chiesa di Betlem (Foligno)

Matt Elliott sta per esibirsi nella Chiesa di Betlem, benedetta nel 1700; ma io preferisco ambientare l’intervista nella surreale location della Casa del Frullato, istituita presumibilmente negli anni ’80, come suggeriscono i globi luminosi giallastri e il verde sfavillante del mobilio. Non mi interessano però i loschi incontri clandestini e la leggendaria carbonara che mi dicono siano le specialità della casa; è la sensazione di straniamento che cerco, quasi presagendo che il leitmotiv della conversazione sarà proprio il sentimento di alienazione dal genere umano, mista a desiderio inespresso, che permea l’opera di Matt.
In che modo l’ambiente circostante ha influenzato la tua musica? In particolare, la tua creatività è cambiata quando ti sei trasferito da Bristol in Francia?

Matt Elliott: È sempre difficile dire esattamente “come”, perché non sono in grado di fare un paragone; molte cose sono cambiate nella mia vita. Vivevo in città e poi mi sono trasferito in campagna e per di più in un paese straniero, quindi credo che siano state le influenze soprattutto a cambiare; quando vivevo a Bristol lavoravo in un negozio di dischi, cosa che non è accaduta in Francia: perciò, non ero più circondato dalla musica; infatti mi sono deliberatamente tagliato fuori dalla musica, perché non volevo subire assolutamente alcun condizionamento. Credo che la mia risposta alla domanda sia molto semplice in realtà: quando fai un lavoro creativo tutto è un’influenza, quindi è davvero difficile valutare cosa arriva da dove.

Quindi quando vivevi a Bristol lavorare in un negozio di dischi ti influenzava, perché eri circondato da musica continuamente…

M. E.: Sì, e a tutti i livelli; potevo vedere chi comprava musica, e che genere comprava; in un certo senso mi vincolava perché mi induceva a pensare “dovresti suonare qualcosa di più simile a questo, perché è più popolare”, cosa a cui non sono più interessato perché provo a fare musica che abbia una sorta di purezza, come se arrivasse direttamente dal mio cuore senza alcun tipo di condizionamento commerciale. È il modo in cui preferisco lavorare. Quindi per me è stato più salutare separarmi dal contesto del music business.

Sembra che tu, durante gli anni, abbia sperimentato due differenti formule espressive: come Third Eye Foundation, l’elettronica noise-industrial; dopo aver posto fine a quel progetto, ti sei dedicato a un songrwriting di stampo intimo e dai toni folk, quasi traditional. Il cambiamento artistico è collegato alla scelta di iniziare a lavorare a nome tuo?

M. E.: Probabilmente The Mess We Made è stato l’album di passaggio, iniziato a Bristol e finito in Francia; è quasi al confine fra i due stili perché, sebbene contenga canzoni, ha una base elettronica… quindi…uhm… si potrebbe dire che c’è stata una lunga transizione, perché è stato pubblicato nel 2003, mentre l’ultimo progetto a nome Third Eye Foundation risaliva al 2000.

La tua evoluzione artistica apparentemente implica un coinvolgimento sempre più evidente dell’elemento “umano”; sei d’accordo con questa impressione?

M. E.: Uhm… sì e no… perché la mia musica prima era più basata su sample e, sebbene usassi le voci per trasmettere emozioni, erano disturbate o manipolate, proprio per modificare le emozioni che dovevano esprimere; mentre come Matt Elliott dovevo trovare la mia voce. È stato un viaggio molto importante che sono felice di aver intrapreso, perché credo che se sei un musicista devi davvero padroneggiare completamente uno strumento; con Third Eye Foundation suonavo la chitarra e le tastiere ma non a un livello ottimo, non ho mai studiato nulla a nessun livello; e quando mi sono trasferito in Francia ero piuttosto annoiato dall’approccio elettronico alla musica, così qualcuno mi diede una chitarra classica e iniziai a imparare le tecniche, registrandomi mentre suonavo. Ho scoperto di essere piuttosto scarso, così ho studiato e studiato, ma da autodidatta; infatti ho scoperto una chitarrista italiana, Filomena Moretti, e ho studiato le sue tecniche di chitarra classica provando a capire come suonasse, e guardavo i video rallentando sulle inquadrature delle mani cercando di cogliere il suo modo di suonare e provando a imparare. Qualcuno crede che io sia stato influenzato dal flamenco, ma Filomena Moretti è stata la mia principale influenza.

Ho anche letto che hai scelto di evitare l’uso delle scale pentatoniche, per prendere le distanze dalla tradizione blues.

M. E.: Tutta la musica pop o gran parte di essa è basata su quelle scale e in sintesi sulla “americanizzazione” della musica, e io volevo veramente allontanarmi da questo: il 4/4, l’alternanza strofa-ritornello-strofa… è qualcosa a cui non sono interessato, sono molto più interessato a un approccio classico alla musica. Molte delle mie canzoni sono lunghe, iniziano in un posto e finiscono altrove…

Non sono circolari...

M. E.: Esatto, somigliano di più a un viaggio… o comunque provo a fare così perché per me è la cosa più interessante.

Rispetto alla tua evoluzione, Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart sembra suonare come un nuovo capitolo, se paragonato a The Broken Man. Nel tuo nuovo disco c’è una sorta di equilibrio nel conflitto, uno dei concetti che più permeava i tuoi lavori precedenti. Cosa puoi dirci a questo proposito?

M. E.: La trilogia era come una registrazione di quello che stava accadendo nella mia vita e The Broken Man era semplicemente una discesa nella realtà… voglio dire, tutto è piuttosto autobiografico quando scrivo, perché credo che sia meglio scrivere di cose che conosci. Quindi sì, The Broken Man descriveva quel preciso momento della mia vita, e Only Myocardial Infarction è… quando qualcosa ti distrugge, puoi scegliere se essere distrutto da qualsiasi cosa e decidere di annientare te stesso e diventare per esempio un alcolista o ucciderti o… molte persone scelgono strade diverse per distruggersi. Oppure puoi scrivere di questo e provare a uscirne e persino a riderne, ed è a questo che si riferisce il titolo: perché quando accade qualcosa nella tua vita, la gente dice sempre “potrebbe andare peggio” o “ci sono molti pesci nel mare”; abbiamo sempre queste espressioni per provare a risollevare la situazione. Ovviamente non risollevano proprio un bel niente…è più un prendersi gioco di certi eventi, e a un certo punto devi tirarti su e andare avanti.

I temi della perdita, delle relazioni fallite, di avere il cuore spezzato sono dominanti nella tua musica; come consideri le relazioni umane in generale?

M. E.: Penso che gli esseri umani siano, per la maggior parte, un po’ folli: il semplice fatto che sei nato, vivi e muori rende folli, perché è una situazione assurda con cui fare i conti. Molta gente non lo fa e semplicemente si trascina, è questo l’atteggiamento normale. Io invece ne sono ossessionato, sin da quando avevo tredici anni e ho capito che sarei morto; è diventato un pensiero ricorrente per me, come un fantasma, perché vuol dire che la tua vita è priva di significato. In qualche modo è una scoperta liberatoria: la vita è una, devi godertela. Ma d’altra parte questo pensiero può portarti alla follia, e tutti ne abbiamo una piccola dose: se osservi abbastanza le persone, ognuno è pazzo per una ragione o per l’altra; il modo in cui ci esprimiamo rende davvero difficile avere relazioni, nella vecchia formula della coppia classica: sei sposato, rimani insieme e poi muori, che non è realmente qualcosa di naturale. Credo che la società stia lentamente iniziando a capire, inizia ad essere un po’ più onesta: le persone si mettono insieme, hanno bambini e poi si lasciano, senza relazioni che trascinano per sempre, mentre prima il modello dominante ti convinceva che se il tuo matrimonio fosse fallito, saresti fallito come persona; quindi la gente continuava a stare insieme a prescindere dalla propria infelicità. La verità è che siamo nati soli, moriamo soli e la maggior parte del tempo che c’è in mezzo in realtà siamo soli. Se condividi qualcosa di bello con altre persone, bisogna capire che non dovrebbe essere una situazione da “o tutto o niente”; ma è difficile da comprendere per alcuni: c’è una mancanza di onestà, le persone non parlano davvero e non esprimono se stesse. Se dici al tuo amante “ho bisogno di spazio, voglio solo starmene un po’ da solo”, molte persone non capiranno perché sono terrorizzate dalla solitudine, farebbero qualsiasi cosa per evitare di rimanere sole anche per cinque minuti, perché è in quel momento che arrivano i pensieri oscuri; ma io non ho paura di questo, sono felice e molto entusiasta di stare solo, ma non sono contento di trovarmi in solitudine. Ed è a questo che serve l’arte, a capire che è solo una questione di onestà: incontri le persone, ti innamori, diventi ossessivo. Ho capito la logica secondo cui funziona il mio cervello:  Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart parla di donne con cui non è in realtà successo nulla e la relazione non è mai iniziata, sebbene fossi molto innamorato o attratto o curioso. È molto più tragico di quando ti metti insieme e poi ti lasci, perché c’è tutto quel potenziale che si perde; non si finisce insieme perché si è troppo complicati l’uno per l’altra, o si hanno aspirazioni differenti o differenti idee circa le relazioni. Nella vita in generale, ho sempre la testa tra le nuvole: chi sono è molto utile per il mio lavoro, ma quello che è utile per un artista, non lo è per i rapporti sociali, perché ti portano alla follia e ti rendono una persona paranoica; è molto utile per l’arte perché puoi comprendere le cose e metterle in relazione in un modo che le persone non possono capire, ma nella vita reale ti rende paranoico. Il problema dell’umanità è solo la mancanza di onestà: essere onesti con se stessi prima di tutto, e questo poi ci consente di essere onesti con gli altri; quindi in definitiva tutte le relazioni sono condannate al fallimento, finché non realizziamo che possiamo davvero essere onesti con noi stessi.

Avrei una domanda riguardo il paragone con altri songwriters…

M. E.: Il paragone con Leonard Cohen…

Ma dopo aver parlato di rapporti e vita in generale, penso che parlare di altri autori non abbia molto senso…

M. E.: A dire il vero non sono un fan di Leonard Cohen, ma sono un grande fan di Scott Walker, Tim Buckley, Tom Waits; questi sono i cantanti e autori che preferisco. Mi hanno detto che avrei dovuto ascoltare Leonard Cohen e ho provato, ma la sua attitudine non mi piace molto, scusami!

Non è la mia opinione personale, è solo un parallelo ricorrente in gran parte della critica.

M. E.: In qualche modo è un parallelo pigro, basato sul fatto che suono la chitarra classica e ho la voce bassa.

Io lo trovo piuttosto fuorviante.

M. E.: Sono contento che tu lo dica, perché dopo l’ultimo disco mi chiedevo “sono forse solo una brutta copia di Leonard Cohen?”. Quando avevo circa sedici anni, c’era un programma tv chiamato The Sound of the Sixties, e lì trasmisero un live di Cohen forse risalente ai tardi ’60… era The Outsider o The Stranger Song credo, una delle mie canzoni preferite e il suono sul finale fluttua nell’aria, e trovai molto bello che qualcuno potesse essere così emotivamente toccato dalla propria espressività e da ciò che la canzone può significare, facendolo piangere in pubblico. Quindi questo mi ha influenzato, il fatto che si potesse essere sempre onesti con la propria musica, con i propri testi…

Anche Tim Buckley era sempre molto coinvolto nell’esecuzione quando suonava.

M. E.: Non ho mai visto alcun filmato in quel periodo, sono venuti fuori più tardi. Sono stato un grande fan di Tim Buckley: l’ho scoperto verso i diciassette anni e mi ha completamente cambiato la vita; quando ho iniziato a provare a cantare, ho tentato di imitarlo: ma nessuno può cantare come Tim Buckley, e quindi la prima cosa che ho dovuto fare è stata trovare la mia voce.

Il vociare dei clienti inizia irrimediabilmente a sovrastare il tono basso involontariamente coheniano di Matt e intuisco che, come me, non ami sforzarsi per dominare sull’umanità circostante. Forse è sincera la curiosità che esterna, quando mi suggerisce di tornare nel rifugio accogliente della chiesa per sentire il concerto d’apertura degli Psychosomatic; o forse è un garbatissimo pretesto per defilarsi da una folla di rumori bidimensionali e livide luci artificiali.

Foto di Valeria Pierini

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