lunedì 21 agosto 2017

Le Sirene abitano a Vasto

Per chi, come me, ci vive, Vasto non è, ovviamente, una scoperta: il suo mare, con le spiagge, le calette, i trabocchi, il suo borgo antico, i suoi Giardini ed il Cortile del palazzo D’Avalos e Piazza del Popolo che si affaccia sul golfo e il portale, unica testimonianza di quella che era la Chiesa di San Pietro, scesa giù a mare nel 1956 per una rovinosa frana, sono tra i posti più suggestivi ed incantevoli dove ascoltare musica dal vivo.
Però, anche per me, vederla così piena di vita “musicalmente vera” per almeno 2 o 3 giorni, è ormai da 4 anni una (continua) sorpresa.



Sorpresa nel vedere sempre tante persone di ogni età accorse per la comune passione, magari per i gruppi più importanti e di richiamo ma anche per il più misconosciuto cantautore o gruppo, magari di adolescenti che rifanno il verso ai Ramones.
Dicevamo le 4 location a cui si è aggiunta, come ogni anno, una 5° che per 3 anni è stata la Cattedrale di San Giuseppe e quest’anno invece è stata trasferita nella Chiesa della Madonna del Carmine, sempre nel centro storico.
Sarà per l’atmosfera mistica, sarà per il silenzio e l’attenzione con cui si segue la performance dell’artista di turno ma questo è uno degli appuntamenti a cui cerco di non rinunciare mai.
Tra le mura di questa antica Chiesa, con l’esibizione di Jens Lenkman, si è chiusa, con qualche ora di ritardo, dovuto, come ha detto lui stesso, a problemi con i voli, l’edizione 2017 del Siren Festival.
Jens è entrato timidamente, ha eseguito una decine di brani, introducendone alcuni, spiegando da quali storie derivavano, e timidamente è ripassato attraverso le navate e se ne è andato.
Il giorno prima sul palco di Piazza del Popolo si erano susseguite le performance di Noga Erez, energia elettronica pura, Ghostpoet, ottima performance la loro, grintosi ma, alla lunga, tutto un po’ simile ed infine Trentmoeller, garanzia di un live trascinante.

 


In alternanza nel Cortile Carl Brave X Franco 126, ma soprattutto il ritorno attesissimo, degli Arab Strap.
Concerto grintoso, con Aidan a scolarsi i suoi barattoli di Peroni, mentre Malcolm ha preferito dell’ottimo vino rosso (senz’altro Montepulciano d’Abruzzo) e chiusura con l’acclamatissima The First Big Weekend che Aidan recita, leggendone il testo.



Qualcosa si perde sempre in questi festival e quindi si arriva al Portale di San Pietro per ascoltare un pizzico di Zooey e di Gomma, con Ilaria regina dello stage. Gli altri rimandati ad altre occasioni.



Venerdì è stato il giorno degli headliner Italiani, Ghali, padrone dello stage che arringa le sue fan adolescenti, e Baustelle, sempre eleganti e composti.
In apertura, in Piazza del Popolo, l’eterea Jenny Hval, a metà tra Bjork e Zola Jesus.



Netto cambio di atmosfera e di epoca con gli Allah Las, pregevoli ma stucchevoli, seguiti nel cortile da ciò che rimane dei Cabaret Voltaire, con un lungo drone elettronico.
A Porta San Pietro altri ottimi giovani di tra cui spiccano Andrea Laszlo De Simone e Giorgio Poi.

Questo viaggio “all’incontrario” nel Siren 2017, termina, ovviamente, con la serata del giovedì che molti hanno perso perché arrivati direttamente il venerdì.
In effetti l’apertura delle edizioni passate era sempre stata affidata a presentazioni e/o sonorizzazioni di film ed interviste con i protagonisti.
Quest’anno invece un doppio appuntamento musicale.
A seguire Thony e la sua nuova creatura Mahilini, interessanti ma han suonato solo 4 pezzi, poco per un giudizio più approfondito, si è esibita la band che per freschezza, potenza, presenza e suono non ha avuto rivali in questa edizione.
Tom Barman (dEUS) ed i suoi sodali, con una formazione che ricorda l’esperimento di Neneh Cherry di qualche anno fa, batteria, contrabbasso e sax, hanno trascinato gli intervenuti.



Cosa dire di più? Che ci sono stati, a chiusura delle serate di venerdì e sabato, anche i dj set di Apparat e Daniel Miller tra gli altri, dei racconti di Alioscia (Casino Royal) e del reading di Emidio Clementi, sonorizzato da Davide Nuccini nella magnifica ambientazione dei Giardini D’Avalos, che quest’anno c’è stato, nel pomeriggio, un festival parallelo in riva al mare, che i controlli acuiti dai fatti di cui tutti sappiamo, non hanno comunque creato problemi.



Unico neo, le persone che, purtroppo, sono rimaste fuori dal cortile durante i dj set ed alcuni concerti, proprio per la riduzione di capienza della location.
Insomma, si pensa già al prossimo anno, archiviando una pregevole edizione 2017 che, come negli anni precedenti, ha fatto dell’eterogeneità uno dei suoi punti di forza, accontentando un po’ i gusti di tutti i partecipanti.

Avanti con l’edizione 2018, allora.

martedì 6 dicembre 2016

Brianza strumentale: quattro chiacchiere coi La Macchina di Von Neumann

Incontro i La Macchina di Von Neumann (Davide e Francesco alle chitarre, Stefano al basso e Samuel alla batteria) dopo il loro concerto al Circolo Agorà di Cusano Milanino, e fra tizi sospetti seduti in automobile, citazioni di Francesco Burdin, parole ardite ed acerrimi nemici è uscito fuori quanto segue. Poi non fate le persone brutte e se non li conoscete andateveli ad ascoltare, eccheccazzo.

Quando e come si è formata la band?

D: Ci siamo formati nel 2014, inizialmente eravamo io e Francesco ed abbiamo cominciato in due a scrivere i primi pezzi, poi da agosto abbiamo iniziato a provare con la formazione al completo ed a limare le idee che erano uscite in precedenza. A dicembre abbiamo fatto uscire il nostro primo ep ed il 17 gennaio 2015 abbiamo esordito  live all’Amigdala Theatre di Trezzo Sull’Adda. A dicembre 2015 abbiamo fatto uscire Buona Musica, il nostro nuovo ep, ed al momento non abbiamo intenzione di farne uscire altri per concentrarci sull’uscita di un album…cercando di fare qualcosa che non rompa le palle alla gente per 40 minuti, cosa non facile quando fai musica strumentale!

Conosco una band di Roma chiamata Vonneumann, vista la similitudine mi vien da chiedervi: cos’ha di così particolare Von Neumann per essere diventato così citato dalle band strumentali del paese?

F: Io e Samuel abbiamo studiato informatica, ed anche Davide a grandi linee si occupa di quello: all’università la macchina di Von Neumann era una cosa che si finiva per studiare spesso, visto che è la base del calcolatore moderno. Stavamo valutando un po’ di nomi, io ho sparato La Macchina Di Von Neumann ed ha fatto presa…anche se non subito.
St: C’era un altro forte candidato prima, The Utopia Experiment.
F: Ci infastidiva un po’ il fatto che fosse un nome inglese, e volevamo rimanere si qualcosa nella nostra lingua. Alla fine ci siamo anche un po’ stancati di pensarci ed è rimasto La Macchina Di Von Neumann.
Sa: Von Neumann comunque è un personaggio importante, ha lo swag!
D: E’ uno che, tanto per dire, ha collaborato al progetto per la creazione della bomba atomica.
St: Infatti qualcuno ci ha detto “vi chiamate Von Neumann, siete cattivi allora!”

Su facebook definite il vostro genere “musica strumentale per punk di lusso”: come vi è saltata in mente questa definizione?

D: Prima di quello in realtà eravamo “musica strumentale per casalinghe annoiate”, una di quelle cazzate nate parlando di niente e che alla fine ti rimangono in testa.
Sa: Con influenze e genere musicale “Heater Parisi”.
D: Heater Parisi che ringraziamo sul nostro bandcamp tra l’altro. La nuova denominazione è nata quando abbiamo cominciato a provare un brano ancora senza nome, che facciamo anche live, e visto che una volta in sala prove l’abbiamo fatto alla Blink 182 è nata questa cosa dei punk di lusso.
St: Ci scherziamo sopra perché alla fine siamo gente tranquilla, vediamo in giro gente che è veramente hardcore mentre noi siamo dei borghesi…a parte Francesco, che stasera si è aperto un dito mentre suonava ed ha insanguinato la chitarra quindi è molto punk!

Mi incuriosiva molto la decisione in un pezzo del primo ep, Breda, di svoltare all’improvviso verso il jazz. E’ una cosa nata improvvisando in sala prove?

F: E’ una cosa nata da me, visto che il pezzo era un po’ corto e volevamo allungarlo in qualche maniera ho provato a proporre la svolta jazz! Abbiamo provato, ci piaceva ed a quel punto abbiamo pensato che potesse starci  anche un sax. Un nostro compagno di università, Jacopo, lo suonava e così lo abbiamo chiamato, e lui ha veramente improvvisato visto che ha fatto giusto quattro take e l’ha registrato sul disco.
D: Ci ha anche aiutato perché l’ultima parte del pezzo l’ha scritta lui! Era anche il primo periodo in cui suonavamo assieme e ci siamo fatti influenzare da un gruppo di nostri amici, i Carlito’s Porno Trio, che fanno tutte questi cambi di genere matti: l’idea ci piaceva, così abbiamo deciso di farlo anche noi ed abbiamo visto che ci stava bene.

Avete anche fatto un ep comprendente due remix di un vostro brano, Tale Edro Shin Tone, come vi è venuta questa idea?

D: E’ stato un esperimento. A parte l’intro, in cui c’è Von Neumann che parla preso da un’intervista su youtube di  43 minuti che è la nostra grande fonte d’ispirazione, il resto è il tentativo di vedere come sarebbero i nostri pezzi se facessimo gli Aphex Twin della situazione.
F: E’ un po’ ardita come dichiarazione!
St: L’idea era anche quella di far uscire qualcosa per tenere alta l’attenzione, visto che non facevamo niente di nuovo da un po’.
D: Un remix l’ho fatto io, dell’altro si è occupato Enrico Alamia, un mio ex compagno di studi che fa drum’n’bass ed abbiamo coinvolto proprio perché faceva cose differenti dalle nostre.

In Segmentation Fault sento qualche eco dei Russian Circles: quali sono le vostre principali influenze?

D: Li conosciamo poco in realtà.
F: Per quel pezzo, in cui ho dato una mano in fase di scrittura, mi sono ispirato in parte ai Maybeshewill ed in parte, per il ritmo della batteria in un certo punto, ai Fine Before You Came…e per quest’ultima cosa Samuel mi insulta, sostiene che si senta che è una parte di batteria non scritta da un batterista! Dire delle influenze precise è comunque difficile, perché il progetto è nato proprio attorno al fatto che ascoltavamo tutti cose diverse.
D: Io e Francesco ascoltiamo più post rock, ma non ci piace limitarci a quello. Facciamo musica strumentale perché è ciò che ci lascia più liberi di sperimentare e di suonare quello che riusciamo ad inventare…e nel caso non ci riusciamo ci mettiamo sotto ed impariamo!
St: Quello che ascoltiamo non è fondamentale in quello che facciamo, ma può essere funzionale al progetto.
F: Io ho visto poi la presenza del cantante sempre come un vincolo.
D: Il nucleo iniziale dei brani l’ho scritto io, poi li abbiamo rivisti tutti insieme in sala prove trasformandoli in una cosa nostra, ma da chitarrista non riuscivo ad immaginare una voce sui pezzi che avevo scritto.
Sa: Non volevamo limitarci ad una struttura dei brani con strofa, ritornello, bridge, cosa che con un cantato diventa quasi automatica, mentre in questa maniera riusciamo ad esprimerci meglio.
D: Non trovavamo in quel periodo oltretutto nessuno  che ci interessasse a livello vocale nella nostra zona, e piuttosto che prendere una voce solo per fare numero abbiamo preferito continuare con la composizione attuale.
St: Ci sono molte band strumentali fra l’altro nella nostra zona, forse è dovuto alla penuria di cantanti bravi!

Ho visto che non avete un etichetta, è una scelta che volete portare avanti quella di autoprodurvi  in libertà o qualcosa cambierà in futuro?

D: In questo momento non sentiamo l'urgenza di lavorare con un produttore, anche se sicuramente potrebbe aiutarci a sbrogliare alcuni punti sui quali capita di trovarci in difficoltà quando scriviamo i pezzi. Senz'altro ci penseremo per il futuro, ma per ora preferiamo mantenere la nostra autonomia, anche perché la scelta del produttore non può essere fatta a cuor leggero.
F: Trovare un’etichetta non è tra le nostre priorità, stiamo più che altro cercando un’agenzia di booking visto che nell’ultimo anno abbiamo suonato meno di quanto vorremmo. Purtroppo non è facile trovarne una.
St: Come registrazione siamo abbastanza autonomi, visto che se ne occupa Davide.
St: Non siamo gente che intasa le mail dei locali chiedendo di farci suonare, siamo poco attivi da questo punto di vista, ed è il motivo principale per cui cerchiamo qualcuno che lo faccia per noi.
D: Abbiamo conosciuto Simone Castello di Costello’s a marzo al Pending Lips festival e quello che facciamo gli è piaciuto, ci sta trovando qualche data in giro come quella di stasera all’Agorà od al Tambourine di Seregno e la cosa non può che farci piacere.
So che avete collaborato anche con qualche realtà della vostra zona come Concertini Di Musica Brutta e Cosmea Music.
D: Con Concertini abbiamo avuto un ottimo rapporto, sia noi che molte band della nostra zona, anche se per motivi vari la cosa non è proseguita. Siamo riusciti a fare molte date e ad avere alcune interviste, soprattutto nel 2015.
F: Cosmea Music invece è un progetto che è nato dai Fractal Reverb, un’altra band della nostra zona, e consiste in pratica in una pagina su Facebook con cui si cerca di condividere date fra vari gruppi. Sono uscite un paio di date grazie a loro, una con gli stessi Fractal Reverb alla Casa Occupata Gorizia di Milano ed un’altra al Joe Koala nel bergamasco con i While Sune Ends, altra band che è iscritta al gruppo e che ci ha chiesto di aprire al loro release party.

Ho visto che avete suonato con alcune band molto interessanti come Valerian Swing o Lago Vostok: ce n’è qualcuna in particolare fra queste o fra quelle che gravitano nella vostra zona che vi ha colpito particolarmente?

D: Il primo gruppo che mi viene in mente sono i Fitzcataldo, che hanno appena fatto uscire un ep e stanno per partire in tour in tutta Italia, sono della nostra zona ed abbiamo con loro un buonissimo rapporto. Un’altra band sono i Brain Distillers Corporation, che si definiscono southern rock ed in cui suona Frank, ovvero colui che ci ha aiutato nelle registrazioni della batteria dell’ultimo ep e batterista anche dei Carlito’s Porno Trio, altra band meritevole.
St: Anche L’era Del Bantha, i Maledetta Dopamina…sono tutte band della nostra zona con cui capita di suonare e con cui ci troviamo bene anche a livello umano. Poi ci sono anche i La Sindrome Della Morte Improvvisa, i nostri acerrimi nemici!

Ultima domanda: l’avete poi scoperto il segreto della stracchinata avvolgente? (Per informazioni ascoltare l’incipit della seconda traccia di Buona Musica, “Ecco appunto”)

D: Evidentemente no visto che stiamo cercando un’agenzia di booking!
Sa: Diciamo che il succo del raviolone della stracchinata avvolgente è il magna magna, quando c’è qualche band che arriva da qualche parte non per meriti propri.
D: Che poi qualche parte non si intende San Siro, ma tipo dei circoli Arci normalissimi. Band che per qualche motivo aprono a qualcuno di famoso, hanno un’etichetta che li segue, un booking dietro, eppure non hanno assolutamente niente che ti rimanga impresso. Poi scopri che ci sono tutti agganci e scambi di favori dietro, che sarebbero validi nel momento in cui proponi almeno qualcosa di meritevole ma purtroppo la qualità non è più un discrimine da questo punto di vista.

Sa: Per fortuna noi su questa cosa ci scherziamo sopra e non ce la prendiamo comunque, è inutile farsi il sangue cattivo per così poco.




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lunedì 21 novembre 2016

Quando il Veneto si fa lisergico: Trompe Le Monde

Ci sono band che, complice la distanza, non ho (ancora) la possibilità di vedere live: i Trompe Le Monde sono una di queste, ma la curiosità di saperne di più sul loro background mi spinge ad usare la comodità di internient per fargli qualche domanda: questo è quel che ne è venuto fuori.

- Trompe Le Monde mi rimanda con la mente all’album dei Pixies, band con la quale però sembrate avere poco a che spartire. Da dove viene il nome?

Il nome è stato scelto ancora nel lontano 2012 dal nostro chitarrista Flavio, quando eravamo ancora il classico gruppetto che si trovava in sala prove a fare le prime cover. Non si trattava di un tributo ai Pixies (nonostante Flavio ne sia un fan), il fatto è che ci piaceva molto il significato che ci stava dietro: tradotto dal francese “inganna il mondo”.
- Anche il titolo del disco è particolare, ha un qualche significato?
Ohrwurm” è una parola traducibile solo nella lingua tedesca. Propriamente vuol dire “verme dell’orecchio”, ovvero una canzoncina/motivetto che entra in testa e non se ne va più, il nostro classico “tormentone”. Abbiamo deciso di chiamarlo così proprio perché speravamo in questo effetto nelle orecchie degli ascoltatori. Starà a loro decidere se in modo positivo o negativo, noi saremo contenti lo stesso
- Curiosando su facebook ho visto che i vostri pezzi sono passati anche in Francia e persino in California, come avete fatto ad arrivare fino là?
Bella domanda! Subito dopo l’uscita dell’ep abbiamo cominciato a inviare le solite centinaia di mail a webzine musicali, blog, siti di recensioni, radio ecc ecc. Le prime risposte sono arrivate esclusivamente dall’estero, dall’Europa agli Stati Uniti. Giusto per fare un esempio, solamente due giorni dopo l’uscita dell’ep una rivista irlandese ci aveva scritto dicendo che avevano appena recensito il nostro disco. Gli dobbiamo di sicuro offrire una Guinness.
- Come siete entrati in contatto con Brigante Records?
Nel periodo in cui eravamo alla ricerca di etichette la Brigante è stata una fra le prime a risponderci. Lì abbiamo conosciuto il buon Simone Calvo, manager/tutto-fare dalla provincia di Cuneo che ci ha dato una grandissima mano con la pubblicità dell’ep, con il merch e tutto il resto. Inoltre grazie alla Brigante abbiamo potuto scoprire fantastici gruppi come i John Holland Experience, i Demikhov ed altri ancora. Dategli un ascolto, non ve ne pentirete!
- Come vi è venuta l’idea per il finale folle di Doxa?
Credo che non ci sia risposta più esaustiva di “siamo degli inguaribili cazzeggiatori”. Ci sono persone che si scervellano ore e ore per trovare un finale adatto per una canzone; noi non ci mettiamo certo meno impegno, ma se ci diciamo "mettiamo una linea di basso rockabilly/ la suoneria nokia/ un ritmo bossanova" e stanno bene tutte assieme, perché non farlo
- Da dove è tratto l’inserto iniziale di Blob? E’ un’idea che ricorda molto la musica dei Fuzz Orchestra.
 Non è la prima volta che sentiamo il paragone con i Fuzz Orchestra! Quello che sentite all’inizio è un estratto del film “Quinto Potere” di Sydney Lumet (1976). La rabbia nelle parole del protagonista è qualcosa di unico. Si tratta di un’ invettiva contro il potere mediatico, invettiva che abbiamo portato ai giorni nostri nei confronti dei cellulari, aggiungendo a fine pezzo il tipico fischio dei messaggi whatsapp.
- Il video di Disfunzione sarebbe perfetto come spunto per un horror girato da David Lynch, o almeno a me fa questa impressione. Dove lo avete girato e come è nata questa idea?
E’ proprio quello a cui volevamo puntare! Il video non l’abbiamo girato noi ma è tratto da un filmato su youtube in cui un ragazzo fa delle riprese a questa casa vecchia casa abbandonata. Abbiamo dunque deciso di distorgere le immagini il più possibile e cambiare tutti i filtri dei colori proprio per dare quel tono “horror”. A dirla tutta, più che definirlo come “video” preferiamo classificarlo come un esperimento. Se l’ascoltatore vorrà entrare al cento per cento nel mood della canzone allora dovrà mettersi nella propria stanza rigorosamente al buio con un buon paio di cuffie. A quel punto potrà gustarsi come si deve “Disfunzione”.
- State già lavorando a qualcosa di nuovo dopo l’ep?
Assolutamente! Siamo già impazienti di far sentire i nuovi pezzi che abbiamo in cantiere. Tante novità nei suoni e nelle idee, soprattutto a causa del recente cambio di formazione. Ora vedrete due chitarre e una batteria. Il resto lo scoprirete voi vedendoci dal vivo.
- Com’è la scena musicale nella vostra zona? Ho letto della presenza di un collettivo chiamato Youth of today che sembra molto attivo.
La situazione è molto particolare. I locali sono davvero pochi ma le band sono tantissime, più di quante se ne possano immaginare! Conosciamo alcuni ragazzi di Youth of Today, fanno davvero dei salti mortali per poter cambiare le cose nella zona (e fuori). E' una di quelle realtà che dimostra come nonostante ai giorni nostri sia difficile fare live, la voglia di suonare c’è e rimarrà sempre.
- Prossime date?

In questo periodo stiamo organizzando una serie di date per l’anno nuovo in varie regioni con diversi gruppi. Per ora ne abbiamo in programma alcune a metà Gennaio tra le nostre zone ed il Friuli, a breve potrete vedere gli eventi ufficiali sulla nostra pagina facebook! Ci vediamo li ragazzi!

giovedì 27 ottobre 2016

Quando il basso non serve: intervista ai Muschio

L'ultima intervista per Stordisco l'avevo fatta un paio d'anni fa ai Valerian Swing, e proprio quella sera mi ero ritrovato a vedere di supporto una band che mi aveva fatto una grande impressione. Quella band erano i Muschio, e mi sembrava quindi doveroso ricominciare da dove avevo lasciato.


Siete partiti con l’idea di formazione attuale, con due chitarre e batteria, o l’assenza del basso è dovuta ad altre logiche?

Fabio: Abbiamo iniziato così, senza la sicurezza che potesse funzionare a livello di suoni. Io e Rino venivamo da un’esperienza precedente anche questa con la stessa composizione, i Leo Minor, ma con i Muschio siamo migliorati a livello di copertura di frequenze e ci siamo quindi accorti, supportati dai commenti positivi della gente ai nostri primi live, che il basso effettivamente non serviva. Avere anche il basso non manderebbe certo a monte il nostro lavoro, ma in tre abbiamo trovato il nostro equilibrio e non sentiamo quindi la necessità di allargare la formazione. Si viaggia anche meglio oltretutto!

Qual’è il significato del titolo del vostro ultimo disco, Zeda?

Fabio: E’ il nome della montagna più alta che sovrasta Verbania. Ci è parso subito un buon nome, anche se inizialmente doveva essere il titolo di una canzone.
Rino: All’inizio il titolo del disco doveva essere La Custre, che poi è diventato il nome di una delle canzoni inserite.
Alberto: Zeda però continuava a risuonarci in testa, ci suonava bene.
Rino: Siamo molto legati alle nostre zone, l’altro titolo richiama il lago e quindi casa nostra anche in questo caso. Avendo la fortuna di abitare in un luogo pieno di bellissimi paesaggi ci è sembrata una bella cosa omaggiarlo a questo modo.
Fabio: In più c’è una montagna anche nella cover del disco, quindi il cerchio si chiude.

Mi incuriosisce molto anche la cover: c’è stata qualche suggestione particolare dietro la scelta del soggetto o è tutta farina del sacco dell’autore?

Fabio: La cover è stata realizzata da Luca Solomacello, un grafico che lavora con tantissime band. Noi gli abbiamo solo detto cosa rappresentava lo Zeda del titolo, dopodiché lui si è entusiasmato all’idea della montagna e l’ha rappresentata col suo stile.
Alberto: Vedendola su vinile abbiamo anche scoperto ulteriori particolari, che dalle dimensioni del disco non si notano.
Fabio: Aveva realizzato un’altra cover in realtà, con la montagna meno in evidenza, ma negli ultimi giorni prima di consegnare tutto mi ha detto che voleva rifarla perché aveva avuto un’altra idea. Il giorno dopo avermi chiamato mi ha mandato quella che è diventata l’immagine definitiva, con questo paesaggio molto particolare e di cui siamo rimasti molto soddisfatti.

In Laboratorio Lacrime è presente in alcuni momenti la voce. E’ un esperimento che avete intenzione di fare nuovamente?

Fabio: E’ stata una cosa improvvisata, non penso che saremmo in grado di proporla dal vivo. E’ nata come idea per dare un qualcosa in più al disco, ma siccome nessuno di noi è un cantante od un urlatore abbiamo dovuto fare un po’ di prove.
Alberto: Si può considerare una specie di incipit del disco.
Fabio: Utilizzare qualche parola permette di manifestare un sentimento, dare l’idea di certe dinamiche…però non credo che faremo mai un pezzo intero con la voce. Preferiamo fra l’altro tenere il mistero attorno al proprietario della voce, non ci sembrava neanche il caso di metterlo sul disco…avevamo pensato anche ad invitare qualcuno di esterno ma sarebbe venuta una cosa troppo professionale e a noi piaceva l’idea di improvvisare!

Il legame con la vostra zona si nota anche nella scelta per la registrazione, visto che sia questa che il mixaggio sono avvenuti fra il novarese ed il verbano.

Fabio: Emanuele Navigli, che ha registrato e mixato il disco, vive a Domodossola per cui ancora più verso le montagne di noi. Ci siamo trovati bene con lui ed è venuto naturale quindi pensare di poter fare tutto rimanendo vicini a casa: siamo andati a registrare in una sala che conosceva a Paruzzaro, nel novarese, quindi l’ha poi mixato a casa sua.
Rino: Oltre ad essere un buon fonico è anche una persona ottima dal punto di vista umano, una caratteristica che a noi interessava molto visto che è fondamentale per poter lavorare bene.
Fabio: Si poteva pensare anche di fare le cose diversamente, con un produttore, ma si andava su altri livelli anche economicamente ed abbiamo preferito fare le cose in questo modo. Noi registriamo in presa diretta tutti nella stessa sala, con dei separé per ridurre al minimo i rientri nei microfoni e qualche sovra incisione per gonfiare un po’ la mia chitarra, questo ci permette di avere l’energia di un live su disco anche se comporta ovviamente dei piccoli svantaggi a livello di pulizia del suono. In tutto per la registrazione abbiamo impiegato un paio di giorni.
Alberto: Avevamo fatto anche una preproduzione prima della registrazione vera e propria, ed Emanuele è stato talmente bravo che suonava già quasi bene come un disco vero e proprio.
Rino: In questa maniera funzioniamo, magari in futuro si potrà pensare di fare le cose diversamente. Anche solo registrando sempre in presa diretta ma in stanze separate.

Come siete entrati in contatto con la vostra etichetta, Argonauta Records?

Fabio: Conoscevamo già un collaboratore dell’etichetta, Gabriele degli Infection Code, fra le varie etichette a cui abbiamo mandato il materiale c’era anche Argonauta ed è subito piaciuto. Ci troviamo bene, hanno un buon ufficio stampa ed in generale la consideriamo una buonissima etichetta con cui collaborare.

Siete appena stati in tour in Europa, toccando città come Berlino, Praga e Vienna. Come vi è sembrato il pubblico estero rispetto a quello italiano?

Alberto: dipende dalla situazione e dai posti.
Fabio: Suonando in settimana non c’era moltissima gente, quindi è difficile fare un paragone. Nel tour di tre anni fa all’estero, in cui avevamo suonato in alcune situazioni abbastanza grosse, avevamo notato una maggiore attenzione da parte del pubblico.
Alberto: Finito il concerto c’è stata molta gente che è venuta al banchetto a chiederci informazioni su di noi, se saremmo tornati ancora, cose così.
Fabio: C’è da dire anche che eravamo gli stranieri in tour, per cui la gente si immagina chissà che cosa e parte dell’attenzione deriva anche da quello. Qui essendo di casa c’è molta più sufficienza.
Rino: All’estero ti guardano allo stesso modo in cui noi guardiamo le band straniere che vengono dalle nostre parti in pratica.
Alberto: C’è molta attenzione per il tipo di genere però, che al nord va di più ed è facile da trovare anche in situazioni diverse dai locali adibiti esclusivamente alla musica dal vivo. A Praga abbiamo suonato in un pub che dopo le sei di sera cambiava completamente anima, ed abbiamo suonato con quattro gruppi hardcore.

C’è qualche gruppo, fra quelli con cui avete suonato o meno, di cui vi piacerebbe consigliare l’ascolto ai nostri lettori?

Rino: Per me assolutamente gli Appaloosa, parlando anche batterista. Ci abbiamo suonato insieme tre anni fa e sono ssolutamente un gruppo scuola.
Alberto: Recentemente direi i Fuzz Orchestra, che stanno girando molto e meritatamente. Hanno un batterista mostruoso, livello tecnico altissimo fra tutti. Fra le band con cui non abbiamo suonato invece direi i Calibro 35, perché per quanto facciano un genere molto diverso dal nostro hanno aiutato la musica strumentale ad arrivare a molte più persone.

Fabio: Mi piacciono molto andando più sull’estremo  gli Organ, gruppo doom di Belluno potente e non scontato. Anche i Cani Dei Portici, duo toscano, o i Legni Vecchi, altro duo più virato sull’emocore. Ci sono molti gruppi interessanti nel canavese, Ruggine, Glad Husbands, Ape Unit…la Vollmer come etichetta ha creato davvero una bella scena. 

lunedì 25 aprile 2016

L'importante è impazzire - Intervista ai BRUUNO

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Dicembre 2015.
In cinque giorni vien fuori ‘sta storia qui, che poi è un po’ quella di tutti noi gente ruvida, piena di lividi anche piacevoli, disillusa, arrabbiata, a volte pigra e troppo spesso lenta, solitaria e pure incazzata, con la sete in gola di “perder la ragione e ritrovarla”.
Sveglia, però, ora, è primavera.
La BELVA - BRUUNO è uscita dal letargo pronta per ruggire nelle vostre orecchie sporche di ascolti monòtoni e monotòni.
Ecco la nuova adozione V4V, bracconiera di selvagge scoperte che insieme a Coypu Records ha dato suono al disco della stagione dei fiori del male.

Potrei scriverne di cose, sì potrei. Perché nonostante Belva sia un EP, in sole sei tracce riesce a definire l’indefinibile generazionale di sempre, senza perdersi nel mare delle proposte meteore, indistinte e poco attendibili.
They did it!
Niente paragoni, niente analisi troppo personali, solo sensazioni fortissime all’ascolto.
L’ASCOLTO, un invito sempre valido, per tutti. Importante.
Ultimamente ho trascorso molto tempo nei grandi musei e nei piccoli negozi di dischi, nelle gallerie d’arte e nelle piccole botteghe e ho imparato o confermato, meglio, che il giudizio è personale e riamane tale quando non c’è diritto di replica dell’autore di un’opera ed in questo caso lascerò che la tecnologia, le distanze virtuali non limitanti e il confronto vi spieghino la faccenda.



Ciao BRUUNO. Spiegateci questa vocale in eccesso e del quando questo “gesto impulsivo” è diventato riflessivo. Sempre che siate ad oggi coscienti della “pesantezza fantastica” di questa musica.

Oddio (Ossatana pure), in realtà il progetto è nato col nome Broono, ma poi abbiamo scoperto che esisteva nel web un rapper latino americano con lo stesso nome e forse digitare “Broono” ed imbattersi in culi shakerati e crocifissi d’oro non sarebbe stato l’ideale; lui poi aveva foto con ragazze in bikini, sarebbe stato difficile reggere la concorrenza, così abbiamo trasformato le “OO” in “UU”.
Comunque c’è da dire che la doppia U suona bene, ti fa gonfiare il petto quando la dici.
Coscienti? È pressoché impossibile essere coscienti di qualcosa che esce di puro istinto…veramente, più che governare un “gesto impulsivo” abbiamo cercato di trovare una linea che potesse mettere d’accordo le diversità musicali di ciascuno di noi e possiamo dire di esserne usciti soddisfatti, per ora.  

Venite da “esperienze musicali diverse” e quindi esperienze di vita differenti. Perché avete deciso di farle convergere in un EP? Raccontateci un po’ com’era tutto prima dei BRUUNO e come potrebbe diventare nei prossimi mesi (qualora abbiate superpoteri di veggenza al condizionale).

È successo tutto per caso, in maniera molto semplice; sembra la solita storiella da “teenage movie musicale”, dove un gruppo di ragazzi con il luccichio negli occhi segue di portare avanti la propria passione sullo sfondo di un tramonto rosso fuoco...
In realtà invece ci siamo trovati in sala prove solo per il puro divertimento di compromettere il nostro udito, poi ci siamo presi incinta di una belva e abbiamo deciso di farla partorire.
Il futuro? Chiedetelo a Otelma o Giucas Casella (se esiste ancora).

Primo singolo in uscita: Sete, con video rigorosamente b/w per la regia di Jacopo Dall’Agnol. Ho sempre pensato alla vita come una partita a Tetris senza soluzione: ditemi, quell’oltre di cui parlate, è un tentativo di arrivare a qualcosa o è esattamente la volontà di scontrarsi con ciò che non si conosce per trovare quell’incastro apparentemente impossibile?

Beh, potrebbe essere una cosa, come l’altra, come tutte e due.
Il nostro lavoro vuole essere molto sincero e diretto, nulla è stato preimpostato per avere un significato più profondo, non abbiamo messaggi subliminali. La nostra musica nasce da un gesto impulsivo, di getto; con queste premesse “oltre” è solo una parola, come lo è “musica”o “cane”. Lasciamo a chi ascolta la libertà di interpretare o leggere “oltre” le parole, con la stessa libertà con cui noi abbiamo evaso parole e suoni di questo album.

Che tipo di ragione è quella che si perde in Sete? Omologazione di pensiero o stanchezza del reale?

Anche in questo caso vale quanto detto fin’ora.
Partendo dal presupposto che ogni persona comprende la musica in maniera soggettiva, ciascuno avrà un proprio modo di interpretare la canzone e “perdere la ragione” a modo suo, non siamo di certo noi a spiegare come farlo. L’importante è impazzire.



120 ore circa per mettere alla prova la nuova insonorizzazione nell’Hate Recording Studio di Vicenza (da dove son passati anche i miei amici Devotion.): che valore ha avuto il tempo in questo lavoro?

Salutiamo i devotion! Che apprezziamo assai.
Riguardo l’esperienza in studio, un po’ ci facciamo i complimenti per essere riusciti a portare a termine qualcosa in modo rapido ed indolore.
Gigi e Maurizio (Icio) dell’Hate sono stati all’estero per un sacco di tempo ed è stato difficile far coincidere impegni e tempistiche. Alla fine siamo arrivati in studio in fretta e furia durante le vacanze di Natale, strumenti alla mano ed in qualche giorno di buona la prima, forse meglio la seconda, il cd era bello che fatto.
Maurizio Baggio si è veramente dimostrato essere una persona unica, nella sua apparente e sincera umiltà nasconde veramente una “belva” di esperienza e reale coscienza di quello che fa, senza presunzione; non è una cosa scontata oggigiorno. Ha fatto un ottimo lavoro e gliene siamo grati.

Per me un disco non è solo un supporto fisico, è una piccola storia concreta fatta di suoni, immagini, materiali. So che Sfido si occupa della grafica perciò questa domanda la rivolgo soprattutto a lui: che influenza hanno sulla tua musica l’arte e l’estetica? Quel mostriciattolo di china in cover, cosa sta cercando di fare? Distrugge o si ribella?

Beh, innanzitutto ci tengo a precisare che il lavoro di grafica è stato redatto a quattro mani con Carlo: il piccolo mostricciattolo che ti piace tanto, infatti, è opera sua; sia chiaro che non lo cito per dargli credito, ma per dividere le gioie e soprattutto i dolori della collaborazione artistica (in realtà mi picchia se non lo faccio).
Comunque devo dire che c’hai azzeccato in pieno: l’idea è che attorno ad ogni gruppo musicale gravitino un insieme di valori e di concetti che vanno oltre la semplice musica, coinvolgendo l’intera produzione artistica.
Personalmente ho sempre adorato giocare con la carta cercando di ottenere forme non convenzionali, cose che vanno oltre il classico prodotto standard ingabbiato nel jewel case.
Con l’artwork di Belva abbiamo tentato un gioco di sovrapposizioni: ad una forma molto statica e rigorosa, inquadrata nella sua geometria, si sovrappone una creatura schizofrenica, maleducata che sporca il quadro, ma allo stesso tempo lo completa. Un po’ come avviene per la nostra musica e/o tra di noi (si, è Carlo quello sporco e schizofrenico).

La batteria in Seppuku è da handbanging istantaneo, in incipit.
Quale colpa deve espiare il samurai?

La colpa di presumere di essere perfetto in questo mondo.
Il samurai “cercava la perfezione”, inseguiva l’idea di una cosciente e innocente utopia. La morte assumeva l’aura di qualcosa di puro di appartenente alla vita stessa.


Senza parlare di scena italiana e panorami visti dalla pianura e non dall’alto, come lo vedete il “momento musicale attuale”? Voglio dire, scegliete di smuovere l’apatia con un suono che non è certo da lenti alla festa delle medie per cui: con quali presupposti e consapevolezze vi esponete?

Sinceramente dobbiamo ancora guardarci intorno.
Siamo come dei bambini che giocano all’interno di un enorme parco giochi; magari siamo un po’ chiassosi, questo è vero, ma non vuole essere una presa di posizione, non vogliamo smuovere nessuno.
Questo è quello che siamo, facciamo quello che ci piace fare. Questa è l’unica certezza che c’ha accompagnato fin’ora.

Suppongo inizierete a girar un po’ la penisola per dare alla Belva ciò che si spetta. Quanto investite nell’idea del live? Come la vivete/vivrete?

Proprio come dici te, dopo i tanti sacrifici per dare alla luce Belva, ora non vediamo l’ora di sguinzagliarla in giro il più possibile.
Noi tutti adoriamo particolarmente suonare live. Cerchiamo se possibile di vivere ogni concerto come se fosse l’ultimo. Ogni data poi ha il suo fascino dato dalla sua imprevedibilità:  potrebbe andar bene come andare a tutto a puttane da un momento all’altro. Tutto acquisisce importanza per il fatto che sia li e in quel momento. È una sensazione unica.

EP è un po’ sinonimo di urgenza. Dopo aver “risolto” questa impellenza, dobbiamo aspettarci un disco o i “progetti futuri” rimangono tali e variabili per cui ci salutiamo qui e ci abbracciamo quanto prima ad un concerto, sott’al palco, appena possibile?

Sinceramente? Non ci pensiamo. Viviamo un po’ alla giornata. Non sappiamo nemmeno cosa succederà domani, figuriamoci a lungo tempo.
Voglia di suonare ne abbiamo sempre a pacchi e quindi materiale non smetteremo di produrne. Per ora tuttavia teniamo la bocca chiusa, non vogliamo portarci sfortuna.


Alle vostre spalle ci sono due realtà indipendenti italiane e V4V credo stia riponendo in voi tantissima fiducia probabilmente ripagata semplicemente dall’intensità del prodotto finale. L’autoproduzione e la politica del DIY è per voi la soluzione o l’antagonista buono?

È un argomento complicato per essere snocciolato in poche righe. Partiamo dal presupposto che ogni gruppo FA QUEL CAZZO CHE VUOLE E DECIDE QUELLO CHE RITIENE MEGLIO PER SE, indipendentemente dall’etichetta o meno. Sicuramente l’autoprodursi e l’ormai verbalmente stuprato concetto del DIY ci ispira qualcosa di buono, di concreto, di sporco ma sincero, personale. Poi, in ogni cosa c’è il buono e il marcio, dipende dalle persone che la gestiscono.
Noi fino ad ora ci siamo trovati bene, Michele è odioso, ma ancora sopportabile.

Date tre cattivi motivi per non ascoltare quest’EP visto che quelli buoni sono riassumibili tutti in un punto esclamativo dopo l’imperativo: ASCOLTATELO!.

1)Klaatu
2)Verata
3)N…(cof!)…VANA!!
Le abbiamo dette, è fatta? Non sono precise ma grosso modo le abbiamo dette.

Grazie per il tempo che avete dedicato a queste domande, è sempre bello ricevere in regalo bella musica così.

Grazie a te Ilaria, ci fa piacere. Portate pazienza, ma facciamo fatica a fare le interviste. Non sappiamo mai cosa dire e quando lo troviamo magari non è poi così interessante. Smile.






BELVA - BRUUNO // Mixato da Maurizio Baggio con supporto morale di Luca Spigato.
Masterizzato da Maurizio Baggio tra l’Hate Studio, un furgone ed un motel di San Diego.
Grafiche e packaging di Bruuno, stampa Tipografia Sartore serigrafia di Vortice.
Chitarre di Luigi Pianezzola e Filippo Tasca.
Basso di Nicola Rosson.
Batteria di Tommaso Trippi.
Voce e tromba di Carlo Zulian.
Cori un po’ di tutti.
Prodotto da Bruuno.
Per info e prenotazioni live Asap Arts.alberto@asaparts.it


lunedì 29 febbraio 2016

Music for the Third Eye - Intervista a Squadra Omega

Trasportavo un fardello di dischi sotto il sole di luglio a Chiusi, per il Lars Rock Fest. Sotto lo stesso sole impunito e rovente la Squadra Omega si dipingeva il volto preparandosi al rituale o forse alla battaglia che li avrebbe impegnati sul palco, dopo un faticoso pomeriggio di soundcheck differiti e interviste inseguite. Le domande che ora leggete, nate da uno scambio di epistole digitali, avrebbero dovuto invece spuntare nutrite dalla fisicità di una conversazione. Ma le mie incombenze mondane e l’impegno dei tre nel tessere incanti sonori ci ha impedito di fronteggiarci e ha rimandato fino all’inverno questo incontro verbale.

La critica musicale ha coniato la definizione “Italian Occult Psychedelia” per classificare un’intera nuova generazione di artisti; cosa ne pensate di questa categoria? E, soprattutto, credete che esista una sorta di “movimento” riconducibile a questa interpretazione?

E' una definizione creata da certa stampa specializzata più che una vera e propria scena. E' comunque innegabile che in Italia in questo momento ci siano parecchi gruppi che fanno musica partendo da presupposti comuni. Generalizzando, si potrebbe definire come una rilettura contemporaneizzata di un suono “psichedelico” che va oltre la forma canzone, aperto all'improvvisazione e al recupero di certe sonorità  sperimentali che hanno avuto, specialmente negli anni ‘70 in Italia, un’interessantissima importanza. Almeno, noi la vediamo così.

Inevitabilmente, anche i critici hanno chiamato in causa il prog italiano nel delineare le caratteristiche dell’ “Italian Occult Psychedelia”; pensate che questo parallelo sia pertinente? Qual è il vostro rapporto con la tradizione del prog italiano?

Nella definizione di  progressive italiano sono stati inseriti moltissimi gruppi o artisti molto diversi tra loro. Per quanto riguarda la Squadra Omega, possiamo dire di essere molto appassionati del versante più jazz rock/avanguardistico di Area, Perigeo, Dedalus, Picchio del Pozzo, Nadma... dal weird folk del primo Alan Sorrenti, o dalla rilettura italiana della kosmiche music di Sensation's Fix,  Battiato e da certa Library Music. La lista sarebbe comunque molto lunga.

Il loro ultimo disco Altri occhi ci guardano [qui la nostra recensione]  è stato registrato interamente in analogico presso l'Outside Inside Studio; mi piacerebbe che ci parlaste di questa scelta: la registrazione analogica suscita diffidenza in molti musicisti, soprattutto in quelli emergenti.

L'Outide Inside è il mio studio, che è principalmente equipaggiato con strumentazione analogica e vintage.  A seconda delle esigenze usiamo diversi approcci in studio: dall'improvvisazione in presa diretta senza sovraincisioni, alla costruzione per strati di overdubs, all'assemblaggio di sessioni diverse. Generalmente la musica è sempre incisa su nastro magnetico, mixata su banco e masterizzata ancora su nastro. A volte, nel mezzo, Pro Tools ci dà un aiutino qua e là nell'assemblaggio.

La copertina del disco è un dipinto del 1977. Come avete scoperto quest’opera e perché l’avete scelta?

Il dipinto è opera di mio padre, Flavio Bordin. L'abbiamo scelto perchè crediamo sia molto in tema con l'immaginario che cerchiamo di creare con la nostra musica. E anche perchè, per tornare alla domanda di prima, fa molto prog italiano anni 70!

Il titolo invece, secondo la presentazione ufficiale, ricorda un racconto sci-fi anni ’50. Siete d’accordo con questo accostamento? Il rudimentale immaginario della fantascienza ai suoi esordi vi appartiene in qualche modo?

Moltissimo. Siamo molto appassionati della fantascienza degli anni d'oro, non tanto di quella avventurosa e d'azione ma più del ramo visionario, mistico, oscuro e lisergico.

Qualche mese fa ho avuto occasione di vedervi eseguire dal vivo la sonorizzazione di Lost Coast. Com’è nata l’idea per questa soundtrack, uscita come disco nel 2015, e la conseguente decisione di portarla anche live?

Tutto è iniziato quando Marc Littler, regista indipendente tedesco, ci ha contattati per sonorizzare Lost Coast. Il film, privo di attori o di dialoghi, si può definire un viaggio nella natura selvaggia e primordiale. Riprese di ampi paesaggi incontaminati, in bianco e nero, descrivono la forza avversa e oscura della natura e  l'incapacità dell'uomo non solo di sottostare alle sue regole ma anche di cercare di comprenderle. Il regista ha dato delle direttive riguardo alla musica, voleva qualcosa che sottolineasse questo conflitto, doveva essere priva di ritmo, fatta di droni e principalmente eseguita con chitarre elettriche. Così abbiamo improvvisato per ore e ore ed è nata la colonna sonora del film. Successivamente è uscita un'edizione in LP con DVD  annesso per Boring Machine e da lì abbiamo deciso di portare dal vivo la proiezione e la sonorizzazione del film.

Nei comunicati stampa, l’abisso lisergico della Squadra Omega è definito “music for the third eye”. Quanta (auto)ironia c’è in questa espressione?

Non saprei in quanto non è stata scritta da noi. E' comunque una di quelle cose che si scrivono nelle biografie per far colpo sui gestori dei locali o sulla stampa!

Foto di Valeria Pierini

venerdì 5 febbraio 2016

Intervista ad Agostino Tilotta (Uzeda/Bellini) – Terni, Anfiteatro Romano, 28/05/2015



La precarietà è una buona base per fare le rivoluzioni. Ovvero: meglio una bicicletta, un ape o l’autobus?

Nei giorni in cui gli Uzeda suonavano prima a Roma, in apertura agli Shellac, e poi all’Anfiteatro Romano di Terni, un dibattito scatenato da Federico Guglielmi infiammava la rete e mi attirava insulti addosso, forse perché ero una delle poche donne coinvolte nelle discussioni. Le mie domande improvvisate, rivolte ad Agostino Tilotta appena dopo il concerto ternano, inevitabilmente ricadevano su quell’argomento: loro, paladini siciliani non tanto delle schiere di parolai italici quanto della devozione allo strumento, sono stati tra i pochi a espugnare i tanto agognati timpani stranieri; perché quindi a tante band italiane l’estero sembra precluso? È forse colpa della lingua?

La questione non è solo una, è un tema; quindi forse è meglio concentrarsi su qualche domanda, ché la materia è complessa… o, per meglio dire, la materia non è complessa: la si fa diventare complessa perché così certo giornalismo – ogni tanto, quasi sempre – tira fuori questo campanilismo che ultimamente, diciamo nell’ultimo ventennio, pare che vada sempre più di moda. E poi il campanilismo, di qualunque nazionalità esso sia, diventa anche localismo; e dal localismo si arriva anche poi a definizioni che, secondo me, sono anche pericolose, perché diventano poi nazionalismi. Questo era per dire che l’argomento è molto largo. Poi dici: stiamo parlando di musica? La musica è un argomento largo.
Noi siamo italiani, abbiamo il passaporto italiano; poi noi siamo siciliani, lo diciamo sempre. Per questo io preferisco chiederti una domanda. Fammi una domanda. Perché appunto l’argomento è veramente largo e, se lo si vuole affrontare, bisogna prenderlo per singole domande nello specifico.

Pensi quindi che il problema o il limite sia la lingua, per le band italiane? Pensi che, sforzandosi di cantare in inglese, potrebbero avere più chance?

Secondo me non esiste un limite. Cioè, se io ho la bicicletta e decido di avere la bicicletta per pedalare, vuol dire che è perché voglio pedalare la bicicletta. Se io penso che ho una bicicletta, ma la voglio far diventare un’automobile, oppure un ape a tre ruote, o un autobus, è chiaro che tutto questo non so dove va a finire. Sinceramente a me non interessa. Oppure, la bicicletta non mi soddisfa, mi compro un ape a tre ruote. Se questo non mi soddisfa, mi compro un’automobile, e così via. Nella comodità di questa discussione – perché non è che è una cosa nuova, è una cosa che esiste da sempre – la materia del canto in inglese… per me sono tutte stronzate, e lo scrivo a caratteri cubitali. Ognuno canti ciò che vuole, ognuno suoni ciò che vuole, purché abbia l’umiltà e la semplicità di cantare se stesso e raccontare le sue storie. Ma questo implica il percorso, non è come andare al supermercato. E comunque, anche fare questo gesto di andare al supermercato implica che uno deve avere, se non scritto sulla carta, deve avere una lista di quello che gli serve. Quindi tornerei al punto focale del problema. Io il problema, semplicemente, non lo vedo; è solo, secondo me, una modalità di creare una discussione. Noi siamo italiani e siamo degli abili parlatori. Ma questo non è una cosa negativa, lo dico per il fatto che la lingua italiana è una lingua bellissima, è una lingua che così, per come si scrive, con tutte le vocali, ha un’ampiezza di dizionario che altre lingue non hanno; forse quella francese, ma è una lingua neolatina, o anche quella spagnola. Per esempio, la lingua inglese non ha quest’ampiezza di vocaboli. Noi abbiamo una parola per ogni emozione, loro non l’hanno; però questo permette a loro questa forma di stringere e allargare, secondo anche l’esigenza “motoria” del momento.
Torno al punto. Per me il problema non esiste. È chiaro che chi canta in italiano e fa musica melodica e va in America, canterà per gli immigrati che vivono là e sono ben felici di andare ai concerti e di spendere anche trecento dollari per vedere un cantante o una cantante di musica leggera. Ma, siccome in tutto questo contesto della discussione “musica leggera” sembra essere offensivo – per me non lo è – allora diventa “musica pop”. Ognuno sceglie un percorso: il pilota di Formula 1 sceglie di andare in Formula 1, con tutti i rischi, anche di lasciarci le penne. La stessa cosa è nella musica: siccome gli uffici stampa… per la maggior parte delle volte gli uffici stampa sono pagati e sono molto potenti e quindi hanno, come si suol dire, il diritto, il potere della parola… il diritto e il potere di riempire i giornali… perché tanto a suon di soldi si fa tutto. Gli ambiti della musica dei quali io credo – lo dico e lo sottoscrivo mille volte – CREDO noi stiamo parlando, non hanno niente a che vedere con tutto ciò. Però anche lì, per strategie, si vuole infilare a tutti costi un ambito diverso dentro un ambito che non c’entra nulla. Quindi Federico Guglielmi – a parte che è un amico, è una persona che sa, capisce, è un appassionato di musica – è chiaro che lui muove una parentesi provocatoria, ma lui lo fa perché conosce gli ambiti in cui si muove la cosiddetta “musica italiana”. Poi, ovviamente, siamo sempre là: noi che siamo siculi, diciamo: “dire tutto, per non dire… stavo dicendo “un cazzo”, ma…scusami… “dire tutto per non dire niente”, o “cambiare tutto per non cambiare niente”. Cos’è la musica italiana, io ancora non l’ho capito. Ho la mia idea ma, voglio dire, se nell’ambito della musica alternativa, giovanile, underground, come lo vogliamo chiamare, per musica italiana si intende “musica che si canta in lingua italiana”, questo è decisamente un punto per creare una grande confusione. Soprattutto, il pericolo maggiore – io lo chiamo pericolo – è di creare una confusione soprattutto in quelli che sono i giovani e che hanno, per fortuna, un’indole diversa: sono molto meglio di noi, sono molto più avanti di noi, hanno molta più sincerità. E hanno molti più problemi, perché hanno tutti quei problemi che noi abbiamo costruito e che abbiamo lasciato a loro. Quindi, tornando a noi, io dico: la domanda, qual è, Angela?

Sull’argomento, se ne può fare anche un’altra...se è vero che i gruppi italiani all’estero non sono conosciuti per niente. Voi, che girate parecchio, forse avete il polso della situazione.

Allora, mettiamola così. La musica, in quanto arte, non è diversa dalle altre arti. Una volta un pittore che veniva da Canicattì, come da Aosta o da Pescara, se ne andava a Parigi come se ne andava a New York, e magari non sapeva parlare una parola di una lingua straniera. Parlava con la pittura. E tutti questi artisti, che venivano da tutte le parti del mondo, si riconoscevano attraverso la pittura. C’è un senso di appartenenza verso un’arte. Questa cosa della musica italiana è una grande stronzata, perché si vuole dire qualcosa che però non si dice. Il mondo è lì: non è che per andare a New York ci vuole la raccomandazione. Io non vedo nessuna prevaricazione per nessuno, sono solo dei falsi alibi; noi cantavamo in inglese ancora prima di varcare lo stretto, era una scelta. Era una scelta poetica, una scelta di certa letteratura, una scelta di uno strumento che è la voce che decide di esprimersi in un certo modo anche per una questione sonora. Non ha niente a che vedere né con Sanremo, né col Disco per l’Estate, né con la classifica, né con le top ten… è tutta un’altra storia. So che questo non copre il gap. Se uno da qua se ne va in America è anche in grado di riempire il Madison Square Garden; bisogna vedere con che tipo di gente lo riempie: ci sono tutti quelli che fanno le pizze a Little Italy, poi ci sono tutti i trasportatori di Boston che sono figli di emigrati, è chiaro che vanno a vedere Laura Pausini e pagano anche cinquecento dollari. Se uno guarda in maniera neutrale, non c’è limite per nessuno; ma, se si vuole dire qualcosa sull’ambito della musica che ci riguarda, io posso dire solo: il mondo è lì, ognuno si accomodi e faccia quello che vuole fare e che riesce a fare. Di sicuro, proprio perché esiste questa specularità e questa capacità di accogliere – perché noi adesso abbiamo le barriere – in America, se il concerto piace, si comprano i dischi, si comprano la maglietta, ti invitano a casa; ma, se non li prende, continuano a giocare a biliardo. Non ci sono strategie di mercato o cose subdole… queste sono le cose che facciamo noi, o che le multinazionali hanno inventato. Il paradosso è che anche i musicisti che stanno nelle multinazionali, che non sono italiane – la Universal, la Sony –, però hanno dei paletti: la Universal italiana deve fare della musica che non vada in conflitto con gli interessi di altre nazioni, dove hanno altre direzioni commerciali. Potremmo continuare fino a domani, ma non penso che…

Anch’io penso che sia meglio uscirne, benché ascolterei per ore Tilotta dissertare, con ipnotica inflessione catanese, sui falsi alibi della musica italiana. E penso che le curiosità di Riccardo, fidato manovratore della macchina da presa, possano tirarci fuori da questo gorgo di riflessioni.
Vi è mancato stasera il rapporto stretto con il pubblico? Vi ho sempre visto come una band che suona in modo molto carnale e che ha un rapporto con il pubblico non palco – platea ma alla pari, con gente addosso. Stasera mi è sembrato un po’ strano, con questo tipo di separazione.

A te sembrava strano, perché tu avresti voluto noi più vicini. Per noi il discorso è molto lineare: il nostro punto di riferimento, anche per il ruolo che abbiamo: per esempio, stasera noi siamo quelli che andiamo sul palco, un’altra sera noi siamo la platea assieme agli altri. Quindi, se fossi stato al tuo posto, a me che piace fruire la musica molto più intimamente, avrei pensato la stessa cosa; però è diverso l’approccio da parte di chi va a un concerto per fruire la musica e da chi invece la musica la fa. Per noi è diverso, il nostro riferimento è il palco ovunque esso si trovi. Quello è la nostra casa. All’interno del palco, per fortuna, noi ci sentiamo imperatori del nostro centimetro quadrato. E ci va bene così. Non è che abbiamo delle preferenze. Possiamo suonare in un posto piccolo quanto la stanza che c’è qua: l’abbiamo fatto ad esempio due anni fa, abbiamo suonato in questo locale bellissimo che si chiama “Perditempo”, in piazza Dante a Napoli: era un posto piccolo, proprio una sala da cinquanta. La cosa bellissima era che, siccome c’erano queste porte a vetri ed era d’estate, queste porte a vetri si aprivano sulla piazza, che era chiusa al traffico, e lì ci stavano cinquecento persone, e noi eravamo circondati da queste persone. Ma non è una predilezione per noi, per noi il punto di riferimento è il palco, ovunque è messo. Per esempio a Catania avevamo il mare davanti e a sinistra avevamo l’Etna. Però capisco che tu ci avresti voluto più vicini. Il palco è stato fatto là, quello era per noi. È chiaro che avere la gente intorno a noi piace, ci sono tanti gruppi che mettono proprio le barriere, le mettono sui rider. A noi proprio non ce ne frega niente. Quando abbiamo fatto il concerto a Roma, tre giorni fa, quando poi abbiamo finito di suonare e abbiamo lasciato il palco a Shellac, io sono sceso dal palco e stavo per infilarmi in mezzo alla gente; il gorilla mi ha fermato: secondo lui dovevo uscire dall’uscita di sicurezza e fare il giro… ma perché? “Qua c’è la gente”. Ma a noi la gente piace. Apri questa barriera e mi fai passare? Sono passato in mezzo alla gente.

L’ultima domanda. A proposito di Catania. Com’è stato possibile che a Catania sia nato un gruppo come voi? Qual era l’humus culturale che ha favorito la nascita?

Io penso che la precarietà sia una buona base per fare delle rivoluzioni. È successo così a Detroit, a Washington DC, ai tempi delle Posse quando sono nati i centri sociali. A un certo punto la necessità si inventa qualcosa, quindi uno ha bisogno di buttarlo fuori, questo malessere: o diventa malato, oppure lo fa esplodere in qualche cosa. E così è stato. Ma è stato, ora non c’è. Aspettiamo che esploda da qualche altra parte. Devo dire, in questo momento non esplode proprio niente. Tutti esplodono dentro Facebook. Perfettamente resi esplosi da chi, a un certo punto, dopo aver succhiato il sistema per scopi militari, ha detto “abbiamo capito come funziona, diamolo alla gente, così si rincoglionisce e diminuisce fino alla nullità la capacità di reazione delle cose”. Non ci va bene niente, non siamo liberi, non ci piace quello che mangiamo, ma ce lo diciamo a vicenda. Poi diciamo: “secondo te, perché la musica italiana all’estero non esplode?”. Perché la musica italiana non ha la capacità di essere così umile e così propositiva per offrirsi: uno si offre al mondo e dice “io contribuisco così”. Allo stato attuale siamo fatti così: noi invitiamo le persone a mangiare e devono mangiare quello che noi pensiamo che sia giusto che loro mangino. Questo è un po’ quello che succede nella musica. Quindi meglio che se ne stiano a casa. Ovviamente non abbiamo risolto il problema. Rimarrà, finché qualcuno dirà: “ma la musica italiana, che speranze ha di avere successo?”. E lì si apre un’altra finestra: “cos’è il successo?”.

Regia e montaggio: Riccardo Tappo
Riprese: Francesco Brunotti e Riccardo Tappo

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